Eppure, a mano a mano che il sole si abbassava e il falco continuava a salire e a colpire e a uccidere, Kerwin scivolò di nuovo nel rapporto estatico tra donna e falcone, tra sangue, terrore ed eccitazione. Alla fine, Neyrissa si voltò verso il falconiere e disse: «Ora basta, portate gli uccelli alla Torre», e trattenne il cavallo, mentre l'uomo partiva al galoppo. Kerwin era certo che si fosse dimenticata di lui. Poi, senza una parola, la donna avviò il cavallo verso le lontane porte di Arilinn.
Kerwin la seguì; curiosamente, si sentiva svuotato di ogni emozione. Notando che si era levato il vento, si infilò il cappuccio e si strinse nel mantella Poi, cavalcando dietro la figura di Neyrissa, con il sole già basso nel cielo e una luna violacea che già si levava da dietro un monte lontano, pallido e scuro, ebbe la curiosa sensazione di essere solo al mondo con quella donna, e di correrle dietro come il falco aveva inseguito le sue prede... Piantò i calcagni nei fianchi del cavallo e corse dietro la donna, come trasportato dal vento, perso nell'eccitazione della caccia, stretto con le ginocchia al cavallo, tenendosi in groppa per istinto, e con tutta la mente rivolta all'inseguimento. Mentre galoppava, era cosciente di essere ancora in rapporto con la donna, e sentiva la sua eccitazione, il suo desiderio non disgiunto da un sottofondo di paura... Alcune immagini gli si affollarono nella mente: l'idea di raggiungerla, di buttarla giù di sella... era un'eccitazione sensuale, che si amplificava passando per la mente della donna, e Kerwin, senza accorgesene, spronò ancor di più il cavallo, fino a raggiungere Neyrissa quando era quasi giunta alle porte della città.
Laggiù, gli parve all'improvviso di rinsavire. Che cosa sto facendo? si chiese. Lui era un ospite, un collaboratore, che adesso aveva prestato giuramento; un uomo civile, non un bandito! Si sentiva pulsare le tempie, quando consegnò il cavallo agli stallieri, e cercò in tutti i modi di non guardare Neyrissa. Scesero di sella, e Kerwin sentì che anche la donna era eccitata, che le tremavano le ginocchia. Era preoccupato per la facilità con cui si erano presentate quelle immagini sessuali, e temeva che le avesse condivise anche la donna. Nella limitata dimensione della stalla, la donna gli passò accanto, senza toccarlo, ma Kerwin non poté fare a meno di pensare al suo corpo femminile sotto gli ampi vestiti, e girò la testa per nascondere il rossore.
Dopo avere superato il Velo, nella cabina mobile, la donna alzò all'improvviso gli occhi verso di lui e disse tranquillamente: «Scusate. Me n'ero scordata... credetemi, non l'ho fatto intenzionalmente. Dimenticavo che non riuscite ancora a schermarvi, se qualcosa vi dà fastidio».
Lui la guardò, vergognandosi di avere condiviso quelle fantasie e giungendo a capire solo dopo un certo tempo che le aveva create lei, e che lui si era limitato a riceverle. Non sapendo che cosa rispondere, disse: «Non importa...»
«No», rispose lei, irritata, «invece importa. Voi non capite. Ho dimenticato che per voi poteva assumere un significato diverso da quello che avrebbe assunto per un altro.» All'improvviso, la donna gli aprì la mente, e Kerwin notò con stupore la sua eccitazione, chiaramente di tipo sessuale e non più mascherata dietro il simbolismo del falco. Provò un forte imbarazzo, e la donna disse: «Come vi dicevo, non potete capire; non avrei dovuto farlo, perché non avete le barriere necessarie a bloccare questo tipo di pensieri. In uno degli uomini del nostro Cerchio, il fatto di ricevere un simile messaggio senza bloccarlo avrebbe assunto un significato diverso. Ma è colpa mia. Non preoccupatevi, so che non avete intenzione di...» S'interruppe, e fissò Kerwin, che colse perfettamente la sua frustrazione.
Kerwin, che non era sicuro di avere capito, disse: «Neyrissa, mi spiace, non volevo offendervi, o ferirvi...»
«Lo so, maledizione», rispose la donna, incollerita. «Comunque, vi dico una cosa: sono cose che capitano. Ho fatto il controllore per un numero di anni sufficiente a capire che la responsabilità è mia. Ho sopravvalutato le vostre barriere, tutto qui! Adesso, piantiamola di parlarne, e cercate di controllarvi, prima di farlo sapere a tutta Arilinn! Io posso controllare questa cosa, ma voi no, ed Elorie è giovane. Non voglio che lei venga disturbata da una simile sciocchezza!»
Per Kerwin, fu come una doccia gelata, che portava via tutto, che cancellava dalla sua mente la presenza di Neyrissa: tutto veniva sommerso dalla considerazione che gli altri telepatici potevano leggere le sue fantasie sessuali... Si sentì nudo ed esibito a tutti, e nell'onda di vergogna che lo travolgeva, la collera di Neyrissa era simile a un lampo rosso. Balbettando qualche parola di scusa, corse via e si rifugiò nella propria stanza. Non aveva ancora capito esattamente che cosa fosse successo, ma era preoccupato.
Rifletté a lungo sull'accaduto, e giunse alla conclusione che in un gruppo di telepatici era impossibile nascondere le proprie emozioni. Poi, quando si incontrò nuovamente con gli altri, anche se temeva che la sua incapacità di bloccare i propri pensieri allontanasse gli altri da lui, nessuno parlò dell'episodio, né pensò a esso. Kerwin cominciava a capire che cosa significasse essere aperto a un gruppo di estranei, fino nei suoi pensieri più nascosti. Si sentiva spogliato, imbarazzato come se l'avessero denudato per mostrarlo al pubblico; ma poi si disse che ciascuno di loro doveva avere pensato qualcosa di imbarazzante, prima o poi, e che si sarebbe abituato anche lui come tutti gli altri.
Almeno, ora capì che non c'era bisogno di fingere con Neyrissa. Quella donna lo conosceva, nelle sue funzioni di controllore era entrata profondamente nel suo corpo, e anche nella sua mente, anche nei punti dolenti che Kerwin avrebbe preferito nascondere. Eppure, Neyrissa continuava ad accettarlo come se nulla fosse. Era una sensazione gradevole. Paradossalmente, Kerwin non la trovò più attraente di prima; tuttavia, avevano condiviso un'esperienza, e questa era l'unica cosa che contasse.
Era ad Arilinn da un mese e mezzo quando gli venne in mente una cosa: non aveva ancora visto la città. Perciò, una mattina chiese a Kennard — non sapeva quali fossero i suoi diritti all'interno del gruppo dei Sapienti della Torre — se poteva andare a visitare la cittadina. Kennard lo fissò per qualche istante e poi disse: «Perché no?» Poi, scuotendosi bruscamente dalle proprie riflessioni, aggiunse: «Per tutti gli inferni di Zandru, giovanotto, non dovete chiedere il permesso a nessuno per fare quello che desiderate. Andate da solo, o chiedete a qualcuno di noi di accompagnarvi, o prendete con voi uno dei kyrri se avete paura di perdervi. Fate come volete!»
Auster, che fino a quel momento aveva continuato a guardare le fiamme del caminetto — erano nella grande sala — si voltò nella loro direzione e disse in tono acido: «Non fateci fare brutta figura andando in città con quei vestiti, per favore».
Tutte le volte che Auster diceva qualcosa, a Kerwin veniva la voglia di fare il contrario. Tuttavia, intervenne Rannirl, che disse: «Ha ragione, Jeff. La gente vi guarderebbe troppo, con quei vestiti terrestri».
«Lo guarderanno in qualsiasi caso», osservò Mesyr.
«Sì, ma è meglio che si cambi. Venite, Jeff, vi presterò qualcosa da mettervi... mi pare che abbiamo la stessa corporatura... per questa volta. E bisognerebbe procurarvi un guardaroba adatto.»
Kerwin si sentì un po' ridicolo, con indosso una corta giubba ornata di pizzi, la camicia dalle maniche ampie, i calzoncini che si allacciavano sotto il ginocchio. E neanche il gusto di Rannirl in fatto di accostamenti di colori corrispondeva al suo; se avesse dovuto indossare abiti darkovani — e in realtà, si disse, doveva avere un aspetto davvero assurdo, con indosso l'uniforme terrestre! — non avrebbe certo scelto un farsetto color rosso magenta con fodere arancione! Almeno, si augurava di non essere costretto a farlo...
Tuttavia, scoprì con sorpresa, non appena si guardò allo specchio, che quell'abbigliamento così appariscente gli stava bene addosso. Faceva risaltare la sua altezza e il suo colore di capelli, due cose che con gli abiti dei terrestri l'avevano sempre fatto sembrare goffo. Mesyr lo avvertì di non mettere niente in testa; i telepatici della Torre di Arilinn erano sempre orgogliosi di mostrare i loro capelli rossi, che evitavano loro di essere coinvolti in risse di strada. Su un mondo di violenze quotidiane come Darkover, dove uno dei sistemi favoriti dalla gente che voleva sfogare i bollenti spiriti erano le zuffe per la via, Jeff Kerwin dovette ammettere che la cosa aveva i suoi buoni motivi.
Mentre passava per le vie della città — alla fine, aveva preferito uscire da solo — notò con imbarazzo che le persone si fermavano a guardarlo e che mormoravano tra sé al suo passaggio. Inoltre, nessuno lo spingeva per passare. La città di Arilinn aveva un aspetto strano agli occhi di Kerwin, che era cresciuto a Thendara, dove si parlava un dialetto diverso, e dove erano diversi anche i vestiti. Ad Arilinn, le donne portavano gonne lunghe fino a terra, e si scorgevano pochi abiti d'importazione, come i giacconi terrestri di tessuti sintetici: in compenso si vedeva tutto un assortimento di cappe e mantelli lunghi, portati sia dagli uomini sia dalle donne. Dopo un poco, Kerwin si disse che le scarpe terrestri che aveva ai piedi non andavano bene con l'abbigliamento darkovano da lui indossato — Rannirl, pur essendo di qualche centimetro più alto di Kerwin, aveva piedi straordinariamente piccoli per un uomo, e Kerwin non aveva potuto farsi prestare i suoi stivali — e così, d'impulso, non appena si trovò a passare davanti a una bottega che vendeva scarpe e stivali, Kerwin entrò e chiese di vedere un paio di stivali.
Il proprietario pareva così intimorito e rispettoso che Kerwin cominciò a chiedersi se non avesse commesso qualche errore sociale — evidentemente, i Comyn non frequentavano i normali negozi — finché non ebbe inizio il rituale mercanteggiamento. A quel punto, l'uomo cercò di convincere Kerwin a lasciare gli stivali da poco prezzo che aveva scelto e a preferire il paio più bello che c'era nel negozio, e lo fece con una tale insistenza che Kerwin insistette ancor di più per avere gli altri. Il negoziante continuò a insistere, con una sorta di angoscia commovente, tanto sembrava genuina, che quei poveri stivali non erano degni del vai dom. Alla fine Kerwin decise per due paia: un paio di stivali per andare a cavallo e un paio degli stivaletti di pelle lucida che tutti, ad Arilinn, parevano portare in casa. Tirò fuori il borsellino e disse: «Quanto vi devo?»
A quella domanda, l'uomo fece la faccia offesa e disse, con stupore: «Che cosa ho fatto per meritare questo insulto, vai dom? Avete reso onore a me e alla mia bottega; non posso accettare denaro in pagamento!»
«Oh, via», protestò Kerwin. «Non dovete parlare così.»
«Come dicevo, vai dom,queste povere cose non sono degne della vostra considerazione, ma se Vostra Signoria si degnasse di accettare un paio di stivali veramente meritevoli della vostra attenzione...»
«Per tutti i diavoli», mormorò Kerwin, chiedendosi che cosa stesse succedendo, che tabù del pianeta Darkover avesse infranto senza volere, questa volta.
L'uomo fissò per un istante Kerwin, come per studiarlo, poi disse: «Perdonate la mia presunzione, vai dom,ma voi siete il Signore Comyn Kerwin-Aillard, vero?»
Ricordando che i bambini darkovani prendevano il nome e il rango del genitore di classe superiore, Kerwin annuì; l'uomo insistette, in modo rispettoso ma fermo, un po' come se insegnasse le buone maniere a un ragazzo leggermente tonto: «Non si usa accettare pagamenti per ciò che un Signore dei Comyn ci fa l'onore di scegliere, signore».
Kerwin, per educazione, si arrese, perché non voleva fare una scenata, ma era piuttosto imbarazzato. Come diavolo poteva procurarsi le altre cose che gli servivano? Che fosse davvero sufficiente chiederle? I Comyn avevano organizzato una bella industria del taglieggiamento, a quanto vedeva, ma lui non si sentiva abbastanza disonesto per approfittarne. Era abituato a lavorare per comprarsi le cose, e a pagarle.
Si mise il pacchetto sotto il braccio e si avviò lungo la strada. Era strano, e in un certo modo piacevole, camminare di nuovo per una strada darkovana come un qualsiasi cittadino, e non come un estraneo, come un intruso. Pensò per un attimo a Johnny Ellers, ma quella parte della sua vita era ormai terminata, e gli anni da lui trascorsi nel Servizio Spaziale Terrestre erano come un sogno.
«Kerwin?»
Alzò la testa, sorpreso di sentirsi chiamare, e vide Auster, vestito di verde e scarlatto. L'uomo si era fermato davanti a lui; ora disse, in tono abbastanza garbato: «Ho pensato che rischiavate di perdervi. Avevo da fare una commissione in città, e mi sono detto che forse vi avrei visto dalle parti del mercato».
«Grazie», rispose Kerwin, «non mi pare di essermi ancora perduto, ma in effetti queste stradine sembrano tutte uguali. Avete fatto bene a venirmi ad aiutare.» Era stupito da quel gesto di amicizia; di tutto il gruppo, Auster era il solo che continuasse a essergli ostile.
Auster alzò le spalle, e all'improvviso, con grande chiarezza, come se il darkovano avesse parlato a voce alta, Kerwin lesse un suo schema di pensiero, chiaro e inconfondibile.
Ha mentito, si disse Kerwin. L'ha detto perché non gli chiedessi che cosa è venuto a fare qui in città. Non è venuto a cercarmi, e, anzi, gli dispiace di avermi incontrato. Ma, con un'alzata di spalle, cercò di non pensare alla cosa. Diamine, lui non era il custode di Auster. Chissà, forse quell'uomo aveva una ragazza, lì in città, o degli amici, o altro. Le faccende di Auster non riguardavano Kerwin.
Ma perché si è sentito in dovere di darmi una spiegazione sulla sua presenza in città?
Avevano ripreso il cammino insieme, in direzione della Torre, che dalla piazza del mercato sembrava un braccio levato sull'orizzonte. Poi Auster si fermò.
«Andiamo da qualche parte a bere un bicchiere, prima di ritornare alla Torre?»
Pur apprezzando quell'offerta amichevole, Kerwin scosse la testa. «Grazie. Ma ho già ricevuto abbastanza occhiate dalla gente, per una giornata sola. E, poi, in genere bevo pochissimo. Ma grazie lo stesso. Magari potremmo andarci la prossima volta.»
Auster gli diede rapidamente un'occhiata; non amichevole, ma comprensiva. Disse: «Vi abituerete a essere osservato... da una parte. Dall'altra, la cosa diventa sempre peggio. Più rimarrete isolato con... con i vostri simili... meno sopporterete la presenza di quelli che non lo sono».
Continuarono a camminare per qualche minuto, l'uno di fianco all'altro. Poi, da dietro di loro, si sentì un grido rabbioso. Auster si girò di scatto e assestò a Kerwin un robusto spintone; preso alla sprovvista, Kerwin perse l'equilibrio, scivolò sui ciottoli della strada e cadde a gambe all'aria, proprio mentre un oggetto passava davanti a lui e finiva contro la parete della casa che gli stava accanto. Una scheggia di pietra volò via dal punto dell'urto e si piantò nella guancia di Kerwin; la ferita si mise subito a sanguinare.
Anche Auster aveva perso l'equilibrio ed era finito in terra a quattro zampe; ora si alzò in piedi e si guardò attorno, poi raccolse la pietra della pavimentazione stradale che qualcuno aveva scagliato contro di loro, con una precisione che, se Auster non fosse intervenuto, sarebbe stata forse mortale.
«Che diavolo!» esclamò Kerwin. Si alzò e fissò Auster.
Questi disse, rigidamente: «Chiedo scusa...»
Ma Kerwin lo interruppe. «Non c'è niente di cui vi dobbiate scusare. Mi avete evitato un brutto livido. Anzi, se quella pietra mi avesse colpito sulla testa, mi avrebbe ucciso.» Si toccò, cautamente, la ferita sulla guancia. «Chi è stato a tirare quella pietra?»
«Qualche malcontento», rispose Auster, e si guardò attorno con inquietudine. «Ad Arilinn ci sono strani fermenti, in questo periodo. Kerwin, mi fate un favore?»
«Be', credo di dovervene uno.»
«Non parlate di questo episodio alle donne... e neppure a Kennard. Abbiamo già troppe cose di cui preoccuparci.»
Kerwin aggrottò la fronte, ma infine gli rivolse un cenno d'assenso. In silenzio, camminando affiancati, raggiunsero la Torre. Era strano, pensò Kerwin, come si sentisse a proprio agio con Auster, nonostante l'antipatia che questi provava per lui. Gli pareva di conoscerlo da sempre. Rimanere isolato con i propri simili,aveva detto Auster. Che anche Auster ritenesse di essere un suo simile, allora?
Adesso, Kerwin aveva due cose su cui riflettere. Primo, Auster, che non aveva simpatia per lui, era entrato in azione — automaticamente, per istinto — allo scopo di ripararlo da una pietra; se fosse rimasto fermo, Kerwin sarebbe stato colpito e lui si sarebbe risparmiato futuri possibili fastidi. Ma ancor più strano del comportamento di Auster era il fatto stesso che qualcuno avesse scagliato la pietra. Nonostante tutta la deferenza ostentata nei riguardi dei Comyn dalla popolazione di Arilinn, in città c'era qualcuno che voleva vederli morti.
O quello che volevano vedere morto era l'intruso, il terrestre? Tutt'a un tratto, Kerwin rimpianse di avere promesso ad Auster il proprio silenzio. Avrebbe voluto parlarne con Kennard.
Quando si riunirono agli altri, quella sera, nella grande sala, Kennard fissò con curiosità il cerotto sulla sua guancia. Se in quel momento l'uomo più anziano gli avesse chiesto spiegazioni, forse Kerwin gli avrebbe risposto — aveva promesso ad Auster di non parlare, non di mentire — ma Kennard non gli fece domande, e così Kerwin si limitò a parlargli del suo battibecco con il bottegaio che aveva insistito per fargli omaggio degli stivali, e disse che quell'usanza lo aveva messo in imbarazzo. Udendo la narrazione, Kennard scoppiò a ridere.
«Caro ragazzo, a quell'uomo voi avete dato un prestigio... suppongo che un terrestre direbbe che gli avete fatto una pubblicità gratuita... che gli durerà per anni! Il fatto che un Comyn di Arilinn, anche uno appena arrivato, sia entrato nella sua bottega e abbia addirittura contrattato con lui...»
«Bel sistema di intimidazione...» mormorò Kerwin, irritato. La cosa non lo faceva affatto ridere.
«In realtà, Jeff, la cosa è assai ragionevole. Noi dedichiamo alla popolazione una buona parte della nostra vita, perché facciamo cose che nessun altro sarebbe in grado di fare. E la gente non ci lascia fare altro. Io sono stato per qualche anno ufficiale della Guardia; mio padre è il suo comandante ereditario, quella carica è una prerogativa degli Alton. Quando morirà, dovrò essere io a sostituirlo. In questo momento dovrei stare al suo fianco, per imparare l'arte del comando; ma ad Arilinn c'era bisogno di me, e così sono ritornato. Se mio fratello Lewis fosse ancora vivo... ma è morto, e l'Erede di Alton sono io, e con il titolo di Erede devo accettare anche quello di futuro comandante della Guardia.» Kennard trasse un profondo sospiro e rimase pensieroso per qualche istante; poi tornò bruscamente a Kerwin.
«In un certo senso», disse, «è un modo per tenerci prigionieri qui dentro, una specie di prezzo della corruzione. Qualsiasi cosa desideriamo... chiunque di noi... ci viene data, così non possiamo lasciare la Torre con la scusa di poter trovare di meglio da fare altrove.» Guardò gli stivali di Kerwin e aggrottò la fronte: «E vi ha dato della mercanzia ben misera! Quell'uomo dovrebbe vergognarsi; non fa buona réclame a sé e al proprio negozio!»
Kerwin rise. Ora capiva perché il bottegaio aveva cercato di fargli prendere un paio di stivali più belli! Lo disse a Kennard, e questi annuì.
«Parlando seriamente, fareste un piacere a quell'uomo se ritornaste da lui e accettaste il più bel paio di stivali che ha in bottega. O, ancor meglio, incaricatelo di farne un paio espressamente per voi, di qualche modello che vi piace. E, mentre siete nella sua bottega, permettete a qualche sarto di farvi un guardaroba adatto a questo clima. I terrestri hanno l'abitudine di riscaldare le loro case, e non il loro corpo; quando ero laggiù, mi sembrava di soffocare...»
Kerwin continuò ad ascoltare i suoi ricordi, ma continuò a non capire perché le Torri fossero così importanti. Che cosa facevano? Trasmettevano i messaggi, certo. Probabilmente, il sistema di relè delle Torri di Darkover era più semplice di un sistema telefonico o di una rete di radioripetitori. Ma se non servivano ad altro, in fin dei conti era preferibile un sistema di comunicazioni radio. Quanto alle altre potenzialità delle matrici, fino a quel momento Kerwin aveva visto dei trucchetti abbastanza irrilevanti, e non riusciva a capire perché i Comyn telepatici fossero così importanti per Darkover.
E adesso c'era un'altra tessera del mosaico che stentava a trovare il suo posto: una pietra, scagliata in pieno giorno, contro due dei venerati telepatici della Torre. Non era stato un caso, non era una pietra vagante scagliata durante un tumulto. La pietra era stata scagliata intenzionalmente, per ferire o uccidere... e per poco non era riuscita a farlo. Un episodio incomprensibile, e ancora una volta Kerwin rimpianse di avere fatto la promessa ad Auster.
Ebbe la risposta a una delle sue domande una ventina di giorni più tardi. In una delle stanze isolate, sotto la supervisione di Rannirl, Kerwin lavorava di meccanica elementare, sperimentando semplici tecniche di emissioni di forze, simili al trucco di fondere il vetro che gli era stato mostrato da Ragan. Lavoravano con le matrici da più di un'ora, e a Jeff cominciava a far male la testa, quando Rannirl disse a un tratto: «Per ora, basta; sta succedendo qualcosa».
Scesero nella sala proprio mentre, dalle scale, arrivava Taniquel. Per poco la ragazza non finì contro di loro, e Rannirl la tenne per il braccio.
«Attenta, bambina! Che cosa succede?»
«Non sono sicura», rispose lei. «Ma Neyrissa ha ricevuto un messaggio da Thendara; il Signore Hastur è in viaggio per Arilinn.»
«Così presto», mormorò Rannirl. «Avevo sperato che potessimo avere più tempo!» Guardò Kerwin e aggrottò la fronte. «Non siete ancora pronto.»
Kennard si avvicinò a loro, tenendosi strettamente alla ringhiera. Kerwin chiese: «Questa cosa ha a che vedere con me?»
«Non possiamo ancora dirlo», rispose Kennard. «Può darsi. È stato il signore Hastur a dare il suo consenso a farvi venire qui, sapete... anche se ne abbiamo accettato noi la responsabilità.»
Kerwin sentì improvvisamente un nodo alla gola. Che l'avessero seguito fino ad Arilinn? Che i terrestri intendessero far eseguire il loro ordine di deportazione? Non voleva lasciare Darkover, non sopportava l'idea di lasciare Arilinn. Il suo posto era lì, quella era la sua gente...
Kennard glielo lesse nei pensieri e gli sorrise gentilmente.
«Non hanno l'autorità di deportarvi, Jeff. Per la legge di Darkover, la cittadinanza di una persona è quella del genitore di rango più alto; questo significa che siete darkovano per diritto di sangue e Comyn Aillard. Senza dubbio, quando si riunirà il Consiglio, il Signore Hastur vi confermerà Erede di Aillard, visto che non ci sono eredi femminili della dinastia; Cleindori non ha avuto figlie, e lei stessa era nedestro.» Tuttavia, aveva l'aria preoccupata, e nel salire alla sua stanza si girò un'ultima volta verso di lui, e disse: «Però, maledizione, mettetevi degli abiti darkovani!»
Kerwin si era procurato un guardaroba in città; nell'infilarsi il severo abito azzurro e grigio che si era fatto fare dal migliore sarto che aveva trovato, si disse, guardandosi allo specchio, che almeno assomigliava a un darkovano. Si sentiva darkovano... almeno per la maggior parte del tempo. Ma aveva ancora l'impressione di essere sotto esame. Arilinn e il Consiglio dei Comyn avevano davvero la forza di sfidare l'Impero Terrestre?
Questa, concluse Jeff, era davvero una domanda cruciale. E lui non sapeva la risposta, né sapeva come arrivarci.
Non si riunirono nella grande sala dove si riunivano la sera, ma in una camera in cima alla Torre, arredata in modo più severo: Kerwin ne aveva sentito parlare come della sala delle udienze della Guardiana. La stanza era vivacemente illuminata da prismi sospesi a catene d'argento; le sedie erano molto antiche, scolpite e di un legno scuro, e nel mezzo c'era un tavolino con intarsi di madreperla e corno, con una stella a dieci punte nel centro. Nella stanza non c'erano né Kennard né Elorie; Kennard era andato all'aeroporto ad accogliere l'ospite. Nel sedersi, Kerwin notò che una delle sedie era più alta e imponente delle altre; si disse che doveva essere quella riservata al Signore Hastur.
Uno dei non umani tenne aperta una tenda, e da essa giunse Kennard, che raggiunse la sua sedia. Dietro di lui veniva un uomo alto e bruno dall'aria autoritaria, di corporatura non eccessivamente robusta, con un'aria militaresca. Disse in tono cerimoniale: «Danvan Hastur di Hastur, Protettore di Hastur, Reggente dei Sette Regni, Signore di Thendara e di Carcosa...»
«...Eccetera eccetera», continuò per lui un altro uomo, dalla voce gentile. «Mi rendi onore, Valdir, ma ti prego di risparmiarmi queste cerimonie.» E il Signore Hastur entrò nella stanza.
Danvan Hastur non era un uomo di statura imponente. Vestito molto semplicemente di grigio, con un mantello azzurro foderato di pelliccia argentea, sembrava un uomo tranquillo, con la vocazione del letterato, che si avviava verso la sessantina; aveva i capelli chiari, con fili d'argento alle tempie, e si comportava in modo educato e senza eccessive pretese. Ma qualcosa, nel modo in cui teneva eretta la schiena, nella linea ferma della bocca, nello sguardo incisivo con cui valutò in pochi istanti tutti i presenti, mostrarono a Kerwin che non era affatto un uomo da trascurare: era un uomo di grande carisma, un uomo abituato a comandare e a essere obbedito; un uomo assolutamente sicuro della sua posizione e del suo potere; talmente sicuro, in effetti, da non avere bisogno di mostrarsi arrogante.
In qualche modo, la sua presenza pareva riempire tutta la stanza. La sua voce giungeva in tutti gli angoli, pur non essendo affatto forte.
«Voi mi fate onore, ragazzi. Sono lieto di ritornare ad Arilinn.»
Fissò gli occhi su Kerwin — occhi intensamente azzurri — e si avvicinò a lui. Così imperiosa era la sua presenza che Kerwin si alzò in piedi senza volerlo, per deferenza.
«Vai dom», disse, «sono qui per servirvi.»
«Allora, sei il figlio di Cleindori, quello che era stato mandato sulla Terra», disse Danvan Hastur. Parlò nel dialetto di Thendara che Kerwin aveva imparato da bambino. «Che nome ti è stato dato, figlio di Aillard?»
Kerwin gli disse il proprio nome, e Hastur gli rivolse un cenno d'assenso, pensierosamente.
«Va abbastanza bene, anche se Jeff ha un suono inutilmente barbaro. Potresti prendere in considerazione l'idea di adottare uno dei nomi del tuo clan; tua madre ti avrebbe certamente dato uno dei nomi di famiglia, Arnod o Damon o Valentine. Hai mai pensato alla cosa? Quando ti presenterai al Consiglio, faresti bene a portare un nome adatto a un nobile Aillard.»
Kerwin disse con voce incrinata, cercando di resistere al fascino di quell'uomo: «Non mi vergogno di portare il nome di mio padre, signore».
«Sì, certo», disse Hastur. «Ti assicuro che non intendevo recarti offesa, cugino, e che non intendevo suggerirti di rinunciare alla tua eredità terrestre. Ma tu hai l'aspetto di un Comyn. Desideravo vederti di persona per assicurarmene.»
Kennard disse, aggrottando la fronte: «Non vi fidavate della mia parola, Nobile Danvan? Oppure...» si girò verso l'uomo che aveva preceduto Hastur e che si chiamava Valdir. «O siete stato voi, padre, a non accettarla?» I due si scambiarono un'occhiata per metà ostile e per metà affettuosa, poi Kennard disse in tono molto ufficiale, rivolto a Kerwin: «Mio padre, Valdir-Lewis Lanart di Alton, Signore di Armida».
Kerwin gli rivolse un inchino, sorpreso. Il padre di Kennard?
Valdir disse: «Non pensavamo che cercassi di ingannarci, Kennard. Ma il Signore Hastur voleva accertarsi che i terrestri non ti avessero fatto accettare un impostore». Studiò Kerwin per qualche istante, con i suoi occhi acuti, poi disse, con un sospiro: «Comunque, vedo che quello che hai detto è vero». E aggiunse, questa volta rivolgendosi direttamente a Kerwin: «Avete gli occhi di vostra madre, ragazzo mio; le assomigliate molto. Io sono stato il suo padre adottivo; mi abbracciate come un parente, nipote mio?»
Fece un passo avanti e abbracciò Kerwin, premendo la guancia contro la sua, prima da una parte e poi dall'altra. Kerwin, capì — giustamente — che era un riconoscimento molto significativo, e chinò a sua volta la testa.
Hastur disse, aggrottando leggermente la fronte: «Sono momenti strani. Non avrei mai pensato di accogliere nel Consiglio il figlio di un terrestre. Eppure, se dobbiamo farlo, facciamolo». Sospirò e disse a Kerwin: «Così sia, ti riconosco come membro del Consiglio». Fece un sorriso torto. «E poiché abbiamo accettato il figlio di un padre terrestre, suppongo che dobbiamo accettare anche il figlio di una madre terrestre. Porta dunque Lewis-Kennard in Consiglio, Kennard, se lo vuoi. Quanti anni ha, adesso? Undici?»
«Dieci, signore», disse Kennard, e Hastur annuì.
«Non posso impegnarmi per il Consiglio», disse. «Se il ragazzo ha il laran... ma per ora è ancora troppo giovane per dirlo, e il Consiglio potrebbe rifiutarsi di riconoscerlo; io, comunque, non mi opporrò, Kennard.»
«Siete troppo gentile, vai dom»,rispose Kennard, in tono leggermente sarcastico. Ma Valdir disse seccamente:
«Basta, faremo volare quel falco quando gli saranno cresciute le penne. Per il momento... be', Hastur, il nostro giovane Kerwin non sarà la prima persona con una parte di sangue terrestre a sedere al Consiglio dei Comyn per diritto di matrimonio. E neppure il primo a costruire un ponte tra i nostri due mondi per migliorarli entrambi.»
Hastur sospirò. «Conosco come la pensi su questo, Valdir; anche mio padre la pensava come te, e fu per sua volontà che Kennard venne mandato sulla Terra quando era solo un ragazzo. Non so se avesse ragione o no; solo il tempo potrà dircelo. Per il momento, abbiamo davanti a noi le conseguenze di quella scelta e dobbiamo affrontarle ora, volenti o nolenti.»
«Strane parole, da parte del Reggente dei Comyn», disse Auster, senza alzarsi dalla sua sedia, e Hastur gli rivolse un'occhiataccia, dicendo:
«Io guardo la realtà, Auster. Tu vivi qui isolato con i tuoi fratelli e sorelle di sangue Comyn; io invece sono ai margini della Zona Terrestre. Non posso fingere che gli antichi giorni di Arilinn siano ancora con noi, o che la Torre Proibita non abbia mai gettato la sua ombra su ogni altra Torre dei Regni. Se ci fosse ancora re Stephen... ma è morto, e che riposi in pace, e io governo come Reggente in nome di un bambino di nove anni, che per di più è ritardato; un giorno, se avremo fortuna, governerà il principe Derek, ma fino a quel giorno devo agire io al posto suo.» Con un ultimo gesto che fece azzittire del tutto Auster, si girò per mettersi a sedere: non sulla sedia d'onore, notò Kerwin, con sorpresa, ma su una delle normali sedie attorno al tavolo. Valdir, invece di sedersi, rimase fermo accanto alla porta. Anche se non portava armi, a Kerwin fece venire in mente qualcuno con la mano sull'impugnatura della spada.
«Adesso, ditemi, figlioli, come vanno le cose qui ad Arilinn?»
Kerwin, osservando il Signore Hastur, pensò: Vorrei potergli parlare della pietra che hanno scagliato contro di noi. Il Signore Hastur è un uomo pratico, saprebbe come interpretare la cosa, senza sbagliare!
La tenda accanto all'ingresso si mosse. Valdir disse in tono grave: «La Nobile Elorie, Guardiana di Arilinn».
Ancora una volta, Kerwin ebbe l'impressione che sul suo corpo di adolescente pesassero troppi fardelli. Le catene d'oro attorno alla vita e sulla chiusura del mantello parevano quasi tenerla prigioniera sotto il loro peso. In silenzio, senza guardare nessuno dei presenti, la ragazza si diresse verso la sedia simile a un trono, a capotavola. Il profondo inchino di Valdir stupì Kerwin, il quale tornò a stupirsi qualche istante più tardi, quando Hastur si alzò e portò il ginocchio a terra, in segno di omaggio verso Elorie.
Kerwin la osservò, paralizzato; era la stessa ragazza che giocava con i suoi uccellini in gabbia e che litigava con Taniquel, faceva sciocche scommesse con Rannirl e cavalcava come un monellaccio per portare a caccia i suoi falchi. Per Kerwin, che non l'aveva mai vista nelle sue vesti ufficiali di Guardiana, fu una rivelazione e una sorpresa. Sentì quasi il bisogno di inchinarsi a sua volta, ma Taniquel gli toccò il polso e gli trasmise, senza parole:
I membri del Cerchio di Arilinn sono gli unici in tutti i Regni che non si devono alzare davanti alla Guardiana. La Guardiana di Arilinn è sacrosanta, ma noi siamo i suoi prescelti. C'era una punta d'orgoglio nel pensiero di Taniquel, e anche Kerwin provò quell'orgoglio; persino un Hastur doveva mostrare rispetto per la Guardiana di Arilinn. Perciò, in un certo senso noi siamo più importanti del Reggente dei Sette Regni.
«Benvenuti nel nome di Evanda e di Avarra», disse Elorie, a bassa voce e in tono leggermente rauco. «Come può Arilinn servire il figlio di Hastur, vai dom?»
«Le vostre parole illuminano il cielo, vai leronis»,rispose Hastur, ed Elorie gli fece cenno di tornare a sedere.
Kennard disse: «È passato molto tempo da quando ci avete onorato della vostra ultima visita ad Arilinn, Signore Hastur. E noi ne siamo davvero onorati, ma, se mi perdonerete, sappiamo che non siete venuto qui per renderci onore, e neppure per dare un'occhiata a Jeff Kerwin, o per parlarmi del Consiglio, e neppure per farmi salutare mio padre e per informarvi della salute dei miei figli. E neppure, oserei dire, per il piacere della nostra compagnia. Che cosa volete da noi, Signore Hastur?»
Il Reggente gli rivolse un affabile sorriso.
«Avrei dovuto prevederlo, Kennard. Come sempre, hai letto nelle mie intenzioni», disse. «Quando Arilinn potrà fare a meno di te, abbiamo bisogno di una persona come te in Consiglio; Valdir è troppo diplomatico. Hai ragione, ovviamente; sono venuto da Thendara perché laggiù c'è una delegazione che aspetta... e la richiesta è quella fondamentale.»
A parte Kerwin, tutti parevano sapere esattamente di che cosa si trattasse. Rannirl mormorò: «Così presto?»
«Non ci avete dato molto tempo, Signore Hastur», disse Elorie. «Jeff fa dei buoni progressi, ma è lento.»
Kerwin si sporse verso di loro, tenendosi ai braccioli della sedia.
«Che cosa succede?» chiese. «Perché guardate me?»
Hastur disse, con gravità: «Perché, Jeff Kerwin-Aillard, grazie a te ora abbiamo, per la prima volta dopo molti anni, un Cerchio delle Torri con piena potenza, sotto una Guardiana. Se non tradirai le nostre aspettative, potremmo salvare la forza e il prestigio dei Comyn. Altrimenti...» Allargò le mani. «I Terrestri potranno fare breccia tra noi. Gli altri li seguiranno e non ci sarà modo di fermare il processo. Voglio che voi tutti veniate a parlare alla delegazione. Che ne dite, Elorie? Vi fidate fino a quel punto del vostro barbaro terrestre?»
Scese il silenzio, e Kerwin si accorse che Elorie lo fissava con il suo sguardo calmo, quasi infantile.
Barbaro. Il barbaro di Elorie. Per loro sono ancora quello.
Poi Elorie si voltò verso Kennard e gli chiese tranquillamente: «Che ne dici, Kennard? Sei tu, quello che lo conosce meglio».
Ormai Kerwin era abituato a sentire discutere davanti a tutti il suo comportamento. In una società di lettori del pensiero non c'era modo di evitarlo. Anche se, per risparmiargli l'imbarazzo, l'avessero fatto uscire dalla stanza, lui avrebbe sentito lo stesso quel si diceva, perché il rapporto con i suoi compagni del Cerchio era troppo stretto. Così, cercò di rimanere impassibile.
Con un sospiro, Kennard disse: «Per quanto riguarda la fiducia, possiamo fidarci di lui, Elorie», rispose. «Ma il rischio è tuo, e perciò anche la decisione deve essere tua. Qualunque cosa tu decida, noi ti seguiremo».
«Io mi oppongo», disse Auster, con foga. «Sapete come la penso... anche voi, Signore Hastur.»
Hastur si voltò verso di lui e disse: «È soltanto un cieco pregiudizio contro i terrestri, Auster?» Con le sue maniere calme, faceva un curioso contrasto con la faccia tesa, la voce incollerita di Auster. «O hai qualche ragione più solida?»
«Sono pregiudizi», disse Taniquel, con irritazione, «e gelosie!»
«Sì, sono pregiudizi», ammise Auster, «ma non sono pregiudizi ciechi. È stato fin troppo facile portarlo via ai terrestri. Come possiamo sapere che tutta la cosa non sia stata una messinscena per ingannarci?»
Valdir disse, con voce profonda: «Con la faccia di Cleindori scritta sulla sua? È di sangue Comyn».
«Se posso permettermi la franchezza», ribatté Auster, «ritengo che anche voi abbiate dei pregiudizi, Nobile Valdir, data l'esistenza del vostro figlio adottivo terrestre e dei vostri nipoti mezzo-sangue...»
Kennard si alzò in piedi di scatto. «Maledizione, Auster, non puoi...»
«E avete parlato di Cleindori!» continuò Auster, pronunciando il nome come se fosse una parolaccia, un insulto. «La ex Dorilys di Arilinn... un'eretica, una rinnegata...»
Questa volta fu Elorie ad alzarsi, pallida e rabbiosa. «Cleindori è morta, e che riposi in pace! E mi auguro che Zandru punisca i suoi assassini frustandoli con gli scorpioni!»
«E così sia anche per il suo seduttore... e per tutto il suo sangue!»ribatté Auster. «Sappiamo che Cleindori non era sola, quando ha lasciato Arilinn...»
Jeff Kerwin provava emozioni nuove, a cui non era abituato. Auster stava insultando sua madre e suo padre, i genitori che non aveva mai conosciuto! Per la prima volta nella sua vita, provò affetto per i suoi nonni terrestri. Per quanto fossero freddi e distaccati verso di lui, l'avevano accolto come un figlio e non gli avevano mai rinfacciato il suo sangue misto, la madre sconosciuta. Avrebbe voluto alzarsi e saltare addosso ad Auster; stava quasi per alzarsi in piedi, ma Kennard lo bloccò con un'occhiata severa, e Hastur ordinò, con voce piena di autorità: «Basta così».
«Signore Hastur...»
«Non una parola di più!» La voce incollerita di Hastur, le sue doti empatiche, costrinsero a tacere lo stesso Auster. «Non siamo qui per disseppellire fatti e misfatti di una generazione fa!»
«Allora, Signore Hastur, scusate, perché siamo qui?» chiese Neyrissa. «Kerwin ha prestato il giuramento del controllore; può entrare in un Cerchio di meccanici.»
«Ma un cerchio con un Guardiano?» volle sapere Hastur. «Siete pronti a rischiare? A fare di nuovo quel che Arilinn faceva ai tempi di Leonie, e che da allora non ha più fatto? Siete pronti per quello?»
Nella stanza scese di nuovo un profondo silenzio, e Kerwin vi percepì anche un sottofondo di paura. Lo stesso Kennard taceva. Alla fine, Hastur aggiunse, in tono pressante: «Soltanto la Guardiana di Arilinn può prendere quella decisione, Elorie. E la delegazione attende le parole della Guardiana di Arilinn».
«Non penso che si debba correre il rischio», disse Auster. «Che importanza può avere per noi quella delegazione? La Guardiana deve avere il tempo di prendere la sua decisione!»
«Il rischio è mio... sia quello di accettare, sia quello di rifiutare!» disse Elorie, rossa in volto. «Non ho mai fatto appello alla mia autorità, finora; non sono una strega o una fattucchiera, non intendo fare appello a pretesi poteri sovrannaturali.» Allargò le braccia e scosse la testa. «Eppure, giusto ò sbagliato che sia, io sono Arilinn e la legge affida l'autorità a me, Elorie di Arilinn. Ascolteremo la delegazione. Non c'è altro da dire, Elorie ha parlato.»
Molti chinarono la testa, mormorando parole d'assenso, e Kerwin non riuscì a nascondere un moto di stupore. Tra loro, nella Torre, litigavano spesso con Elorie e le muovevano senza esitazione le loro obiezioni; quella sorta di pubblico assenso aveva un che di religioso.
Elorie si voltò verso la porta, con decisione. Kerwin, che la osservava, all'improvviso percepì tutta la sua inquietudine. Sapeva,anche se non capiva come potesse saperlo, che Elorie non avrebbe voluto fare appello in quel modo alla sua autorità, e che odiava il timore reverenziale di cui era circondata la sua carica. All'improvviso, quella giovane pallida, poco più che una bambina, gli divenne reale,una donna appassionata, che dietro la calma nascondeva forti passioni e convinzioni profonde, emozioni su cui esercitava il più stretto controllo.
E pensare, si disse, che l'avevo giudicata priva di emozioni. È solo una maschera, ma una maschera che nessuno può toglierle, neppure lei stessa...
Sentì distintamente le emozioni di Elorie, come se fossero le sue. La Guardiana di Arilinn pensava:
Ed ecco che ho fatto quel che mi ero ripromessa di non fare. Ho sfruttato la loro sottomissione reverenziale alla Guardiana per costringerli a fare quello che volevo! Ma dovevo farlo, per evitare un altro secolo di inutili superstizioni... E poi un altro pensiero, che scosse Elorie nella stessa misura in cui scosse Kerwin, una domanda inquietante: Che Cleindori avesse ragione? Poi sui pensieri di Elorie scese il silenzio, come se l'ultima domanda l'avesse veramente spaventata.
CAPITOLO 9
UNA SFIDA PER ARILINN
Mentre scendeva dalla Torre, con Taniquel ed Elorie, Kerwin era ancora scosso dal contatto mentale con Elorie. Che nome aveva dato Kennard a quel fenomeno? "Empatia", la capacità di sentire le emozioni degli altri. Kerwin aveva accettato intellettualmente di possedere quella capacità, l'aveva messa alla prova alcune volte, nel laboratorio e nel Cerchio, ma solo ora, per la prima volta, capiva il suo vero significato: un'emozione incontrollabile, che prendeva il completo possesso di lui.
Non sapeva quale fosse la loro destinazione, e si limitò a seguire gli altri, che oltrepassarono il Velo e proseguirono all'esterno della Torre, fino a una piccola costruzione che Jeff, in precedenza, non aveva mai notato. Era una lunga camera, una specie di sala per congressi, con le pareti coperte di tendaggi; al loro ingresso, si levarono i rintocchi di un gong. Kerwin scorse alcuni spettatori seduti e, davanti a loro, a un tavolo, altre sei o sette persone.
Tutti i presenti parevano persone di mezzi, in genere sulla cinquantina e oltre, e portavano abiti darkovani nella foggia delle città. Assistettero in silenzio mentre Elorie passava tra loro e prendeva il posto centrale. Poi i membri del suo Cerchio si sedettero tranquillamente attorno a lei, senza parlare.
Fu infine Danvan Hastur a prendere la parola. «Siete voi le persone che si sono date il nome di Comitato per Darkover?» chiese.
Uno di loro, un uomo grosso e dalla faccia rossa, con occhi che mandavano fiamme, gli rivolse un inchino.
«Sono Valdrin di Carthon, z'par servu,vostro servitore, nobili signori e signore», disse. «Con il vostro permesso parlerò anche a nome dei miei compagni.»
«Riassumiamo un attimo la situazione», disse Hastur. «Voi avete formato una lega...»
«Per favorire lo sviluppo delle attività manifatturiere e commerciali su Darkover, nei Regni e altrove», disse Valdrin. «Non devo essere io a descrivervi la situazione politica: i terrestri e la loro testa di ponte sul nostro mondo. I Comyn e il Consiglio, escluso voi, Signore Hastur, hanno cercato di ignorare la presenza dei terrestri presso di noi e le sue conseguenze sul commercio...»
Hastur lo interruppe per dire, tranquillamente: «La situazione non è esattamente questa».
«Lungi da me l'intenzione di smentire le vostre parole, vai dom»,disse Valdrin, rispettoso, ma ora anche un po' irritato. «I fatti sono questi: in base alla nostra intesa con i terrestri, ora abbiamo un'occasione che non si era mai presentata in precedenza, di far uscire i Regni dalla nostra medievale arretratezza. I tempi cambiano. Che ci piaccia o no, i terrestri sono qui, e intendono rimanere. Darkover viene portato sempre di più a gravitare verso l'Impero Terrestre. Possiamo fingere che non siano qui, rifiutare il loro commercio, ignorare le loro offerte, e tenerli chiusi all'interno delle loro Città Terrestri, ma queste barriere finiranno per cadere nell'arco di una generazione, al massimo due. L'ho già visto succedere su altri mondi.»
A Kerwin tornò in mente quel che aveva detto il Legato Terrestre: che l'Impero non faceva pressione sui governi, ma che la gente vedeva i vantaggi che poteva avere dall'Impero e che chiedeva sempre più insistentemente di farne parte. «È quasi come una formula matematica», aveva detto il Legato. «È una cosa che si può prevedere.»
E adesso Valdrin di Carthon diceva la stessa cosa, con grande passione.
«In breve, Signore Hastur, noi contestiamo la decisione del Consiglio dei Comyn; vogliamo godere anche noi dei vantaggi che toccano a chi entra nell'Impero!»
Hastur osservò con pacatezza: «Conoscete le motivazioni che stanno dietro la decisione del Consiglio, ossia il desiderio di mantenere l'integrità del modello di vita darkovano, anziché divenire un ennesimo stato satellite dell'Impero?»
«Con tutto il rispetto, Signore Hastur, quando parlate del "modello di vita darkovano", intendete mantenerci per sempre nella barbarie? Alcuni di noi vorrebbero la civiltà e la tecnologia...»
Hastur disse con la stessa serenità di prima: «Conosco meglio di voi la civiltà della Terra, e vi assicuro che Darkover non la vuole».
«Parlate per voi, vai dom,non per noi! Forse nell'antichità c'era qualche giustificazione per il dominio delle Sette Famiglie; a quell'epoca, i Comyn ci davano qualcosa in cambio della nostra obbedienza!»
Valdir Alton chiese: «Amico Valdrin, non pensate che queste parole siano un tradimento nei confronti del Consiglio e degli Hastur?»
Ma Valdrin di Carthon rispose: «Tradimento? No, signore. Gli dèi non lo vogliano. E noi non vogliamo entrare a far parte dell'Impero, esattamente come non lo volete voi. Parliamo di commercio e di progresso tecnologico. Un tempo anche Darkover aveva la sua scienza e la sua tecnologia, ma quel tempo è ormai lontano, e noi dobbiamo avere qualcosa che le sostituisca, per non finire in una nuova Epoca del Caos. Occorre affrontare la realtà e ammettere che quella scienza e quella tecnologia sono ormai finite, e trovare qualcosa che le sostituisca. Se i terrestri vogliono stare qui, che ci diano qualcosa: accordi commerciali, metalli, attrezzature, consulenza tecnica, perché è ormai certo che le antiche scienze delle Torri sono finite per sempre».
Adesso Kerwin cominciava a capire. Grazie alle loro innate capacità mentali, i Comyn erano saliti al potere ed erano i signori — e in un altro senso gli schiavi — di Darkover e dei loro rispettivi Regni. Con la grande energia delle matrici (non le piccole matrici individuali, ma quelle grandi, artificiali, che richiedevano un cerchio di telepatici addestrati nelle Torri e diretti da una Guardiana) avevano dato a Darkover la sua scienza e la sua tecnologia. Questo spiegava le costruzioni fatte con tecniche sconosciute, le leggende sull'esistenza di antiche scienze...
Ma qual era stato il costo di tutto questo, in termini umani? Gli uomini dotati di quei poteri erano costretti a dedicare la propria vita a essi, senza la possibilità di lasciare le Torri, e per conservare il proprio potere dovevano estraniarsi dai normali contatti umani.
Kerwin si chiese se non fosse stata una qualche sconosciuta legge dell'evoluzione, nemica degli estremi e tendente a riportare tutto alla norma, a far progressivamente sparire quei poteri. Perché — e la cosa era innegabile — si erano indeboliti. Mesyr gli aveva detto che Arilinn, un tempo, aveva tre Cerchi, ciascuno con il suo Guardiano, e che Arilinn era solo una delle Torri presenti sul pianeta. Inoltre, il numero di persone dotate in piena misura del prezioso laran si riduceva progressivamente: ne nascevano sempre meno. Così, la scienza di Darkover si era ridotta a un mito dimenticato e a qualche trucchetto con le matrici, come quelli che Ragan gli aveva fatto vedere e che lui stesso aveva eseguito... e tutto questo non era certo sufficiente per allontanare dai darkovani la tentazione di ricorrere al commercio e alla tecnologia della Terra.
«Abbiamo già trattato con i terrestri», spiegò Valdrin di Carthon, «e credo che la maggior parte della popolazione sia con noi.»
Valdir disse: «A Thendara, la gente è fedele al Consiglio dei Comyn!»
«Mi sia concesso di dire, vai dom,che Thendara è solo una piccola parte dei Regni», replicò Valdrin, «e che i Regni non sono l'intero Darkover. I Terrestri si sono impegnati a fornirci tecnici, ingegneri ed esperti di programmazione: tutto quel che occorre per dare inizio alle operazioni minerarie qui. La chiave di tutto, signore, sono i metalli e le altre risorse minerarie. Prima di avere una tecnologia, dobbiamo avere le macchine, e prima di avere le macchine dobbiamo...»
Hastur alzò la mano per interromperlo. Disse: «Conosco già tutta la storia, come una vecchia ballata. Per avere le miniere dovete avere le macchine, e qualcuno deve costruirle, qualcun altro deve scavare i minerali occorrenti per costruirle. Non siamo una civiltà meccanica, Valdrin...»
«È vero, purtroppo!»
«È una cosa da rimpiangere tanto? La gente di Darkover è soddisfatta nelle sue fattorie e nelle sue città. Abbiamo le industrie che ci occorrono: i caseifici, i mulini, le tessiture, la produzione di carta e di feltro, la lavorazione della frutta e del grano...»
«Trasportato a dorso di mulo!»
«Sì», disse Hastur, «ma nessuno deve lavorare come uno schiavo per la manutenzione di strade su cui corrono mostruosi veicoli automatici che viaggiano a velocità da capogiro e impestano l'aria con i loro scarichi chimici!»
«Abbiamo il diritto di avere le industrie e il benessere...»
«Avete anche il diritto di avere le fabbriche? Di accumulare ricchezze costringendo la gente a lavorare in condizioni inumane, a costruire cose di cui nessuno ha realmente bisogno? Di far svolgere il lavoro alle macchine automatiche, e di non lasciare altro, agli uomini, che di intontirsi con divertimenti di poco valore, e di lavorare a riparare le macchine? Il diritto di morire nelle miniere, e di chiudere la gente in città sovraffollate, per costruire e per riparare quelle macchine, senza lasciare loro il tempo di coltivare il cibo occorrente? Così che anche la coltivazione del cibo diviene un'altra mostruosa impresa industriale, e i figli di un uomo sono una perdita invece che una ricchezza?»
Valdrin rispose con calma e con una punta di disprezzo: «Voi siete un romantico, signore, ma l'immagine da voi presentata, così parziale, non convincerà coloro che vogliono qualcosa di più che patire la fame sulla loro terra di anno in anno e morire negli anni di carestia. Non potete trattenerci per sempre in una cultura primitiva, signore».
«Allora, volete davvero diventare una replica dell'Impero Terrestre?»
«Questo, no», rispose Valdrin. «Non è come pensate. Possiamo prendere dal sistema della Terra quello che ci serve, senza lasciarci corrompere da esso.»
Hastur gli sorrise e disse: «Questa è un'illusione che ha già sedotto molti popoli e molti mondi, caro amico. Pensate di poter vincere i terrestri sul loro stesso terreno? No, credetemi. Il mondo che accetta le buone cose venute dall'Impero Terrestre — e lo devo ammettere, ce ne sono tante — deve anche accettare il male che le accompagna. Eppure, non so darvi torto. Non possiamo sbarrare sempre la strada, e mantenere il nostro popolo nella frugalità e nella povertà, una cultura agricola in un'epoca di viaggi interstellari. Forse la vostra accusa è giusta. Un tempo eravamo più potenti di quanto non si sia ora, ed è vero che stiamo uscendo da una sorta di Medioevo. Ma non occorre seguire l'esempio della Terra, ora che gli antichi poteri sono di nuovo tra di noi. Che ne direste se i Comyn potessero fare di nuovo tutte le cose che la leggenda attribuiva loro? Se fossero disponibili fonti di energia che non richiedono l'infinita ricerca di combustibili, ed evitassimo i mali che hanno ferito la nostra terra negli anni precedenti al Patto di Varzil?»
«Sì», ironizzò Valdrin, «e se l'asino di Durramano mettesse le ali? È un bel sogno, ma da anni non c'è una Guardiana competente, per non parlare poi di un cerchio completo.»
«Adesso c'è», disse Hastur, interrompendolo con un gesto della mano. «Un Cerchio di Comyn, completo e pronto a mostrare i suoi poteri. Chiedo solo questo: che vi teniate lontano dai terrestri e dai loro metodi rovinosi, disumanizzanti. Non accettate i loro tecnici e i loro ingegneri, perché distruggerebbero le nostre terre! E se dovete commerciare con i terrestri, fatelo da pari a pari, e non come poveri ignoranti a cui danno una mano per farli uscire dalla barbarie. La nostra civiltà è assai più antica di quanto non pensino i terrestri, ed è orgogliosa. Non offendetela in questo modo!»
Hastur faceva leva sul loro orgoglio e sul loro patriottismo: Kerwin vide illuminarsi gli occhi dei delegati, anche se Valdrin sembrava ancora scettico.
«Il Cerchio della Torre è davvero in grado di farlo?» chiese.
«Sì», rispose Rannirl. «Io sono il tecnico. Abbiamo le capacità necessarie e sappiamo come impiegarle. Che cosa vi occorre?»
«Abbiamo trattato con un gruppo di ingegneri terrestri, perché facciano una ricerca delle risorse naturali dei Regni», spiegò Valdrin. «La nostra principale necessità sono i metalli: stagno, rame, argento, ferro, tungsteno. Poi i combustibili, zolfo, idrocarburi... ci hanno promesso un rapporto completo, e con le loro macchine volanti intendono scoprire i principali depositi esistenti...»
Rannirl alzò la mano. «E per scoprire dove sono», disse, «invaderanno tutto Darkover con le loro macchine infernali, invece di rimanersene decentemente chiusi nelle città commerciali loro riservate!»
Valdrin disse, ancor più rosso in viso: «Lo deploro quanto voi! Non nutro molto amore per l'Impero, ma se l'unica alternativa è quella di piombare nella barbarie...»
«No, c'è un'altra alternativa», disse Rannirl. «Possiamo eseguire la ricerca per voi... e anche l'estrazione, se volete. E possiamo farlo più in fretta dei terrestri.»
Kerwin trasse un profondo respiro. Avrebbe dovuto immaginarlo. Se una matrice poteva muovere un aereo, poteva fare anche infinite altre cose.
Dio, che idea! E terrebbe gli ingegneri terrestri lontano dai Regni...
Fino a quel momento, Kerwin non si era mai accorto di condividere le idee del Signore Hastur sull'argomento. Gli ritornarono in mente gli anni trascorsi sulla Terra: sudicie città industriali, gente che viveva per accudire le macchine, la sua delusione quando era ritornato a Thendara e aveva scoperto che la Città Commerciale era solo un ulteriore angolino di Impero. Con la passione di un ex esiliato che ritorna a casa, comprendeva il sogno dell'Hastur: mantenere Darkover quello che era, tenerne lontano l'Impero.
Valdrin disse: «È una bella proposta, signori, ma i Comyn non hanno più quella forza: non l'hanno da secoli, forse non l'hanno mai avuta. Mio nonno ci raccontava le storie di interi edifici costruiti con il potere delle matrici, di strade costruite con lo stesso sistema, e di altre cose analoghe, ma alla nostra epoca un uomo riesce a malapena ad avere il ferro occorrente per ferrare il cavallo!»
«La proposta è buona», disse un altro dei delegati, «ma mi pare più probabile che sia solo un tentativo dei Comyn per guadagnare tempo finché i terrestri non si stancheranno di noi e non troveranno altri motivi di interesse. Dico che dovremmo trattare con i terrestri.»
Valdrin disse: «Signore Hastur, ci occorre qualcosa di più di vaghi discorsi sugli antichi poteri dei Comyn e delle Torri. Quanto tempo vi occorrerà per eseguire per noi quelle ricerche?»
Rannirl guardò Hastur, come per chiedergli il permesso di parlare. Poi chiese: «Quanto tempo occorrerebbe ai terrestri per farlo?»
«Ci hanno promesso di darci i risultati in sei mesi.»
Rannirl fissò prima Elorie e poi Kennard; Kerwin sentì che fra i tre si svolgeva una comunicazione da cui lui era escluso. Poi il tecnico delle matrici disse: «Sei mesi, eh? Che cosa direste se ve li dessimo in quaranta giorni?»
«A una condizione, però», intervenne Auster, con passione. «Se faremo questo lavoro per voi, rinuncerete all'idea di chiamare gli ingegneri terrestri!»
«Mi sembra giusto», disse Elorie, prendendo la parola per la prima volta. Kerwin notò che, mentre la Guardiana parlava, nella stanza era sceso il silenzio. «Se vi dimostreremo di poter fare meglio degli ingegneri terrestri, vi lascerete guidare dal Consiglio? Il nostro unico desiderio è che Darkover continui a essere Darkover, e non una copia dell'Impero Terrestre... o una sua imitazione approssimativa! Se faremo quel che abbiamo detto, vi lascerete guidare dal Consiglio dei Comyn e dalla Torre di Arilinn anche nelle altre cose?»
«Mi sembra giusto, signora», disse Valdrin, «ma la cosa deve valere in entrambi i sensi. Se non riuscirete a darci quello che avete promesso, il Consiglio dei Comyn accetta di ritirare tutte le obiezioni e di lasciarci trattare con i terrestri senza interferire?»
Elorie disse: «Io posso parlare solo per la Torre di Arilinn, e non per il Consiglio». Però, si alzò Hastur. Anche se non parlò a voce alta, la sua voce parve riempire tutta la sala.
«Parola di Hastur», disse, «sarà così.»
Kerwin guardò Taniquel, e vide che era rimasta colpita da quel nuovo sviluppo della situazione. La parola di un Hastur era proverbiale. E adesso la cosa era interamente affidata alle loro mani: dovevano fare quello che Rannirl aveva promesso, la cosa su cui l'Hastur si era impegnato. L'intero futuro di Darkover era affidato al loro successo, e quel successo dipendeva da lui, da Jeff Kerwin, il "barbaro di Elorie", l'ultimo venuto a far parte del Cerchio, l'anello più debole della catena! Era una responsabilità paralizzante, e Kerwin si sentì tremare, nel valutarne le implicazioni.
Le formalità del commiato furono interminabili, e dopo qualche tempo Kerwin si limitò ad allontanarsi alla chetichella, a uscire dall'edificio e a oltrepassare la nebbia impalpabile del Velo.
Era un peso troppo grande per lui, che il successo o il fallimento dell'impresa dipendessero soltanto da lui... e in un momento in cui il suo addestramento non si era ancora concluso. Ricordò il tormento dei primi rapporti mentali, e sentì di nuovo tutta la sua paura di un tempo. Salì nella sua stanza e si gettò sul letto, disperatamente. Non era giusto chiedergli così tanto, così presto! Era troppo, affidare alle sue capacità, ancora tutte da mettere alla prova, l'intero destino di Darkover, del Darkover che lui conosceva e amava.
Il fantasma di un lontano profumo, che ancora aleggiava nella stanza, lo colpì all'improvviso, e gli parve intensissimo; in un lampo di intuizione, riuscì a entrare in un punto segreto della sua memoria.
Il profumo di Cleindori. Di mia madre, che infranse per un terrestre i voti da lei fatti ai Comyn... che debba pagare io per il suo tradimento?
Una sdita di ricordo si presentò per un istante ai suoi sensi, una voce che diceva: Non fu un tradimento. Nel buio della sua memoria, non riuscì a riconoscere la voce...
Sentì un dolore feroce alla testa, e il ricordo sparì. Si trovò di nuovo nella sua stanza, a dire con disperazione: «È troppo! Non è giusto che debba dipendere tutto da me!» e le parole gli echeggiarono nella mente, riflesse dalle pareti, come se già qualcun altro, in quella stessa stanza, avesse gridato le stesse parole, con la stessa disperazione.
Poi sentì che qualcuno entrava nella stanza, con un passo leggerissimo, e che pronunciava sottovoce il suo nome. Scorse Taniquel al suo fianco, e la rete del rapporto mentale li unì. Dal viso della ragazza era sparita ogni velleità di fare ironia: era tesa e afflitta a causa delle preoccupazioni di Kerwin.
«Non è affatto così, Jeff», gli sussurrò alla fine. «Noi ci fidiamo di te; tutti. Se andremo incontro a un insuccesso, non sarà unicamente colpa tua. Non lo sai?» Lo disse con la voce incrinata e si afferrò a lui, tenendolo tra le braccia. Kerwin, agitato da una nuova, violenta emozione, strinse la ragazza a sé. La baciò sulle labbra, e solo allora comprese che avrebbe voluto farlo fin dalla prima volta in cui l'aveva vista all'hotel, dopo essere passato dalla pioggia e dal nevischio di una sera darkovana al fumo di una stanza terrestre. Una donna del suo popolo, la prima che lo avesse accettato come uno di loro.
«Jeff, noi ti vogliamo bene; se dovessimo andare incontro a un insuccesso, non sarà colpa tua, ma nostra. Non sarai tu, quello da biasimare. Ma riusciremo a farlo, Jeff. So che sei in grado di fare tutto quel che Elorie ha promesso...»
Taniquel lo protesse con le sue braccia, e fuse i pensieri con i suoi; l'ondata di amore e di desiderio provata da Jeff fu qualcosa che non aveva mai conosciuto, mai immaginato.
Quella donna non era una facile conquista, una ragazza di tutti, conosciuta al bar dello spazioporto, che dava al suo corpo lo sfogo di un momento senza toccare il suo cuore. Non era un incontro che lasciava nella sua memoria il gusto amaro dell'avere soddisfatto i propri desideri, e il male della solitudine una volta scoperta, come scopriva sempre, la vacuità della donna, profonda come la sua delusione.
Taniquel, che fin dal loro primo rapporto mentale, fin dal suo primo bacio di saluto, era stata più vicina a lui di ogni altra donna. Come aveva fatto a non accorgersene prima? Chiuse gli occhi, per meglio assaporare la sua vicinanza, la vicinanza mentale che era più intensa del contatto delle braccia o delle labbra.
Poi Taniquel sussurrò: «Ho sentito il tuo bisogno e la tua solitudine, Jeff. Ma avevo paura di condividerli con te, fino a questo momento. Ho condiviso con te il dolore, Jeff... adesso lasciami condividere anche questo.»
«Ma...» disse Kerwin, con la voce roca, «adesso non ho più paura. Avevo paura solamente perché mi sentivo solo.»
«E d'ora in poi», disse lei, leggendogli nei pensieri e lasciandosi andare tra le sue braccia con una resa così assoluta che Kerwin ebbe l'impressione di non avere mai visto un'altra donna prima di allora, «non dovrai mai più essere solo.»
CAPITOLO 10
NELLA TORRE DI ARILINN
Se Kerwin si era immaginato che la prospezione geologica del pianeta fosse un lavoro da compiere con la magia, un po' di concentrazione sulle matrici, un rapido processo mentale, presto si accorse di essersi sbagliato. Il lavoro vero e proprio, dell'intero Cerchio, gli disse Kennard, sarebbe venuto in un secondo momento. Prima c'erano alcuni preparativi da compiere, e solo i membri della Torre potevano farli.
Era quasi impossibile mettere a fuoco il rapporto telepatico, gli spiegarono, senza prima mettere in rapporto tra loro l'oggetto o la sostanza cercati e il telepatico che doveva usarli. Kerwin aveva pensato che la raccolta dei materiali venisse eseguita da persone estranee alla Torre o da servitori; invece fu lui stesso, dato che era il meno esperto con le gemme matrici, a dover svolgere parecchi piccoli lavori tecnici della fase preparatoria. Quando era sulla Terra aveva imparato i rudimenti della metallurgia; adesso, aiutato da Corus, trovò campioni dei vari metalli, e lavorando in un locale che faceva pensare ai laboratori degli alchimisti che aveva visto nei libri di storia, li fuse con tecniche primitive, ma sorprendentemente efficaci, e li ridusse allo stato puro, anche se più volte finì per chiedersi a che cosa servissero i piccoli campioni di ferro, stagno, rame, piombo, zinco e argento. La sua confusione aumentò ulteriormente quando Corus cominciò a fare modelli molecolari di quei metalli, fatti di palline di creta congiunte tra loro da stecchini, soffermandosi poi a volte a concentrarsi sui metalli e a "controllarne" con la matrice la struttura atomica. Presto, tuttavia, Kerwin capì il trucco: non era molto diverso dai suoi primi esperimenti con il vetro e il cristallo.
Intanto, Taniquel partiva quasi quotidianamente sul piccolo aereo, insieme ad Auster e Kennard, per controllare dall'alto le grandi carte geografiche esistenti, e per corredarle di foto del terreno, scattate con buone macchine di fabbricazione terrestre. A volte rimanevano lontani per due o tre giorni di fila.
Taniquel spiegò a Kerwin perché avevano bisogno delle carte geografiche e delle foto. «Vedi», gli spiegò, «la fotografia, e la carta geografica, diventano il simbolo di quel territorio, e noi possiamo entrare in rapporto con il terreno tramite la sua fotografia. Un tempo, una persona con queste doti era in grado di trovare l'acqua e i minerali contenuti nel terreno, ma era costretto a percorrere a piedi la zona che esaminava.»
Kerwin annuì. Anche sulla Terra, dove i poteri mentali non destavano molto interesse, c'erano rabdomanti e cercatori di metalli. Ma su una foto?
«Non li troviamo sulla foto, sciocco», disse Taniquel. «La foto è solo uno strumento per entrare in contatto con quel pezzo di terra, il territorio rappresentato dalla mappa. Lo potremmo trovare con il puro potere della mente, ma è più facile quando si ha qualcosa che lo rappresenta in modo fedele, come una fotografia. La foto ci serve per stabilire il contatto e per segnarvi quello che troviamo.»
Kerwin si disse che era lo stesso principio secondo cui si credeva di poter uccidere un nemico piantando spilloni nella sua immagine; ma quando il ricordo gli affiorò alla mente, Taniquel impallidì e disse: «Nessuna persona addestrata presso la Torre di Arilinn farebbe mai una cosa simile!»
«Ma il principio è lo stesso», disse Kerwin. «Usare un oggetto come fuoco su cui concentrare i poteri della mente.»
Taniquel, però, si rifiutò di ammetterlo. «Non è affatto la stessa cosa! Quello a cui pensi tu, è interferire con la mente di un'altra persona, ed è illegale e... osceno»,disse con ira. Poi aggiunse: «Hai prestato il giuramento del controllore, no?» come se una persona che avesse fatto quel giuramento non potesse pensare a cose di quel genere. Kerwin sospirò; non sarebbe mai riuscito a capire del tutto quella ragazza. Dopo avere condiviso con lei tante emozioni ed essere stato tante volte in rapporto mentale con lei, aveva l'impressione di conoscerla appieno; eppure, di tanto in tanto, Taniquel diventava incomprensibile, estranea.
Mentre terminavano di correggere le carte geografiche con l'ausilio delle fotografie scattate per determinarne l'accuratezza (Kerwin, che conosceva l'arte della fotografia grazie al suo soggiorno sulla Terra, fu incaricato di sviluppare i negativi e di preparare gli ingrandimenti delle ampie riprese aeree) Corus terminò la preparazione dei modellini metallici; a quel punto, Elorie ordinò di passare allo stadio successivo, ossia la costruzione dei reticoli delle matrici, chiamati in genere gli "schermi".
Questo era un lavoro duro, che richiedeva un mucchio di energie, sia fisiche sia mentali; lavoravano con il vetro fuso, la cui struttura, anche se amorfa, era comunque abbastanza solida per tenere nella posizione voluta i cristalli matrice, come una rete chiusa nel vetro. A Corus, che disponeva di un potenziale psicocinetico straordinariamente elevato, era affidato il compito di mantenere il vetro in una condizione cedevole, liquida, senza aumentarne la temperatura. Anche Kerwin tentò di farlo, ma non riuscì a evitare di allarmarsi, ogni volta che vedeva Elorie infilare le fragili mani nella massa di vetro, apparentemente in ebollizione. Rannirl disse seccamente che se Kerwin avesse perso il controllo avrebbero rischiato di ferirsi gravemente, tutti, e non gli permise di occuparsi del vetro quando un altro di loro lo lavorava. A mano a mano che gli strati di vetro si accumulavano, Elorie attivava con la sua matrice i piccoli cristalli sensibili contenuti in ciascuno strato, e Rannirl le stava vicino per sostituirsi a lei se le fosse mancata la forza, e nello stesso tempo seguiva l'intero processo su uno schermo — una spessa lastra di vetro come quella che Kerwin aveva visto nella casa dei due tecnici delle matrici — per controllare le complesse strutture cristalline che si andavano costruendo all'interno. Un controllo simile a quello che Taniquel o Neyrissa eseguivano sul loro corpo quando erano uniti nel Cerchio.
Una volta, alla fine di una lunga seduta di lavoro, Rannirl disse: «Non dovrei parlare così, ma Elorie è sprecata come Guardiana. Sarebbe un ottimo tecnico, ma non potrà mai esserlo perché abbiamo bisogno di Guardiani. Se ci fosse un maggior numero di donne disposte a lavorare come Guardiane... e una Guardiana non ha bisogno del tipo di doti che danno un buon tecnico, una Guardiana non ha neppure bisogno di saper fare il controllore; deve semplicemente regolare i flussi energonici. Per tutti gli inferni di Zandru, potremmo usare una maledetta macchina per farlo. Potrei costruire un amplificatore capace di farlo, un amplificatore che potrebbe essere usato da qualsiasi buon meccanico! Ma è tradizione che lo si faccia per mezzo delle polarità e dei flussi di energia di un Guardiano. E non posso neppure insegnare a Elorie tutto quello che lei vorrebbe sapere sulla meccanica delle matrici; le occorre tutta la sua energia per il lavoro del Cerchio! Maledizione...» abbassò la voce, come se temesse di venire colpito da un fulmine del cielo, «...le Guardiane sono un anacronismo, ormai. Cleindori aveva ragione, ma faglielo capire!» Poi, quando Kerwin, sorpreso, gli chiese che cosa intendesse dire, Rannirl si limitò a scuotere la testa, a stringere le labbra e a dire: «Dimenticate quel che ho detto. Sono idee pericolose». Non volle aggiungere altro, ma Kerwin colse un frammento di pensiero relativo a certi fanatici che ritenevano che la verginità rituale di una Guardiana fosse più importante della sua efficienza nell'ùsare le matrici, e che questa convinzione avrebbe finito per distruggere le Torri, prima o poi, sempre che non l'avesse già fatto.
Lavorando con gli altri, Kerwin sentì crescere di giorno in giorno la sua sensibilità. Ormai non aveva difficoltà a visualizzare le strutture atomiche; il lavoro svolto con Neyrissa, quando aveva imparato a controllare lo stato dei suoi organi interni, lo aiutava a vedere i campi di energia e i processi atomici, e non faceva più fatica a mantenere la stasi in ogni struttura cristallina. Ormai cominciava a sentire la struttura interna delle sostanze; una volta notò tracce di ruggine su uno dei cardini della porta; senza bisogno di qualcuno che lo aiutasse, prese la matrice e con un forte sforzo mentale invertì il processo.
Non tutto, però, era perfetto, perché, quando lavorava con gli schermi, aveva ancora i suoi forti mal di testa, anche se ora riusciva a passare un intero turno sui relè, senza bisogno di compagni. Ma ogni volta che entrava nel Cerchio, lo sforzo era tremendo, e lo lasciava vuoto e spossato, bisognoso solo di una grande quantità di cibo e di sonno.
Ora capiva la ragione della fame che, a quanto pareva, avevano tutti coloro che lavoravano nella Torre: per esempio, Elorie, che lo aveva divertito per la sua infantile passione per i dolci e che lo aveva stupito perché, con la sua corporatura minuta, consumava quantità di cibo che avrebbero saziato un gigante. Ma ora si accorse di avere sempre fame: il suo corpo, svuotato di energia, esigeva nuovo carburante, e glielo comunicava con una fame rabbiosa. Quando la giornata di lavoro era finita (o veniva sospesa perché Elorie non riusciva più a continuare) e Kerwin poteva riposare, o quando Taniquel aveva un po' di tempo da dedicargli, scopriva di avere a malapena la forza sufficiente per stendersi accanto a lei e dormire.
«Temo di non essere un amatore molto brillante», si scusò una volta, preoccupato e avvilito; Taniquel era vicina a lui, desiderabile e innamorata, e lui aveva un solo desiderio: dormire. Ma la ragazza rise e gli diede un bacio sulla guancia.
«Lo so; lavoro con le matrici fin da quando ero una ragazzina, te l'ho detto. È sempre così, quando c'è del lavoro da fare: si ha solo una certa quantità di energia, e se ne va tutta nel lavoro, e non ne resta niente. Non preoccuparti.» Rise maliziosamente. «Quando mi addestravo a Neskaya, a volte ci mettevamo alla prova, io e uno dei ragazzi; andavamo a dormire insieme, e se uno di noi riusciva anche solo a pensare a qualcosa che non fosse il dormire, avevamo la prova che non si era lavorato a sufficienza sulle matrici!»
Kerwin provò una vampata di gelosia per gli uomini che Taniquel aveva conosciuto laggiù, ma era troppo stanco per prendersela.
Lei gli accarezzò i capelli. «Adesso dormi. Avremo tempo per queste cose quando il lavoro sarà finito, se mi vorrai ancora.»
«Se ti vorrò ancora?» Kerwin si rizzò a sedere, e fissò la ragazza. Era distesa sul letto, con gli occhi chiusi, e sulla faccia dal mento appuntito, da elfo, si scorgevano le efelidi, i capelli scolti disegnavano l'immagine del sole sul cuscino. «Che cosa vuoi dire, Taniquel?»
«Oh, la gente cambia idea», rispose lei, sul vago. «Non pensarci, adesso. Ecco, così...» Tirandolo per il braccio, lo fece sdraiare; poi gli accarezzò delicatamente la fronte. «Dormi, caro; sei stanco.»
Anche se era stanco, le parole di Taniquel gli avevano fatto passare la voglia di dormire. Come poteva dubitare, quella ragazza? O che si trattasse di una sorta di premonizione? Da quando si amavano, lui era sempre stato felice; ora, per la prima volta, provò una strana inquietudine, e per un attimo gli comparve davanti agli occhi un'immagine mentale di Taniquel, la mano nella mano di Auster, a passeggio sulla cima della Torre. Che cosa c'era tra Taniquel e Auster?
Kerwin sapeva che Taniquel gli voleva bene in un modo che lui non avrebbe creduto possibile. Lui e Taniquel erano in perfetta armonia. Ora sapeva perché i suoi rapporti occasionali con le donne non erano mai andati al di sotto della superficie; la sua sensibilità telepatica aveva colto il vuoto fondamentale del tipo di donne da lui frequentate. Un tempo si era dato dello sciocco per il suo "idealismo", perché voleva più di quello che una donna gli potesse dare. Ma adesso sapeva che la cosa era possibile: il suo rapporto con Taniquel gli aveva chiarito un'intera dimensione della sua vita: il piacere di condividere passioni ed emozioni, la vera intimità. Sapeva che Taniquel gli voleva bene; e come poteva voler bene anche a un altro, se voleva bene a lui?
Altri particolari si misero a fuoco mentre, sdraiato sul letto — e con il mal di testa, naturalmente — rifletteva. Adesso, diverse cose gli erano chiare: nella Torre, tutti sapevano che erano amanti. Piccole cose che al momento non aveva notato: un sorriso di Kennard, uno sguardo carico di significato da parte di Mesyr, anche la battuta rivolta a Neyrissa: «Sei gelosa?»
Non mi era mai venuto in mente, ma in una cultura di lettori del pensiero lo si dà per scontato, non esistono cose come la sfera privata e i malintesi. Poi, all'improvviso, si sentì arrossire: che avessero letto i suoi pensieri, le sue emozioni, che avessero spiato lui e Taniquel? Provò un profondo imbarazzo, come si fosse destato improvvisamente da un sogno in cui veniva esposto nella pubblica piazza, nudo come quando era nato, e poi, svegliandosi, si fosse accorto che era davvero così.
Taniquel, che si era addormentata vicino a lui e che anche nel sonno continuava a tenergli la mano, si destò all'improvviso, come se fosse stata colpita da un tizzone ardente. Avvampava di indignazione.
«Sei... sei un barbaro!» gridò. «Sei proprio un terrestre.»Scese in fretta dal letto e s'infilò la vestaglia; un istante dopo, non c'era più, e i suoi passi echeggiavano sul pavimento di mattonelle disuguali. Kerwin, stupito da quella collera improvvisa, rimase solo con il suo mal di testa. Si disse che non poteva andare avanti così, che l'indomani aveva del lavoro da fare, e cercò di applicare le tecniche per prendere sonno che gli aveva insegnato Neyrissa, rilassando i muscoli, rallentando progressivamente il respiro, per allentare le tensioni e per ridurre la pressione del sangue che gli pulsava alle tempie. Ma era troppo confuso e avvilito per riuscirci.
Tuttavia, quando rivide Taniquel, la ragazza era ritornata quella di sempre, gentile e affettuosa, e lo accolse con un abbraccio. «Perdonami, Jeff, non avrei dovuto prendermela. Non è stato onesto da parte mia. Non è colpa tua se sei vissuto fra i terrestri e hai preso una parte del loro... strano comportamento. Vedrai che con il tempo riuscirai a capirci meglio.»
Rassicurato dal braccio che lei gli passava attorno alla vita, dalle emozioni di Taniquel che si mescolavano alle sue, non poté dubitare della sincerità dei sentimenti della ragazza.
Tredici giorni dopo la visita ad Arilinn del Signore Hastur, le matrici erano pronte. Più tardi quello stesso giorno, nella grande sala, Elorie disse a tutto il gruppo: «Questa notte potremmo dare inizio alla prima operazione di ricerca».
Kerwin fu colto per qualche istante dal panico dell'ultimo minuto. Era la sua prima esperienza di un rapporto prolungato con l'intero cerchio.
«Perché di notte?» chiese. Istintivamente, gli pareva che quel genere di ricerca si dovesse fare con il sole.
Fu Kennard a rispondere. «La maggior parte della gente dorme, durante la notte», disse. «Così, ci sono meno interferenze telepatiche... in radiofonia li chiamereste disturbi di fondo. C'è anche un disturbo telepatico di fondo.»
«Voglio che tutti voi approfittiate di questa giornata per dormire», disse Neyrissa. «Questa sera dovrete essere freschi e riposati.»
Corus strizzò l'occhio a Kerwin e disse: «Meglio dare un sedativo a Jeff; altrimenti non riuscirà a prendere sonno, nell'attesa». Non lo disse con malizia. Mesyr guardò Kerwin con aria interrogativa.
«Se volete qualcosa...»
Lui scosse la testa. Si sentiva un po' sciocco. Chiacchierarono ancora per qualche minuto, poi Elorie, con uno sbadiglio, disse che accoglieva il suggerimento e si recò nella sua stanza. A uno a uno, tutti lasciarono la sala del focolare. Kerwin, che, anche se era stanco, non aveva sonno, restò ad attendere per qualche tempo, augurandosi che Taniquel lo raggiungesse. Forse, se l'avesse avuta vicino, sarebbe riuscito a dimenticare la prova che li attendeva e a prendere sonno.
«Neyrissa parlava sul serio, giovanotto», disse Kennard, fermandosi accanto a lui. «I suggerimenti del controllore sono legge, in un caso come questo. Meglio che vi riposiate, altrimenti questa notte non riuscirete a fare il vostro lavoro.»
Per qualche istante, scese il silenzio; poi Kennard inarcò le sopracciglia. «Oh», disse, «mi dispiace che sia andata così.»
Kerwin non riuscì più a resistere. «Maledizione», esclamò, «non c'è proprio nessuna intimità, qui dentro!»
Kennard gli rivolse un sorriso triste. «Scusatemi», disse, «ma sono un Alton, e noi siamo i più forti telepatici dei Comyn. E... be', sono vissuto sulla Terra; ho sposato una donna di quel pianeta. Perciò, forse capisco queste cose meglio dei nostri giovani. Non offendetevi, ma... posso dirvi qualcosa, come parlerei a un fratello più giovane o a un nipote?»
Kerwin, nonostante tutto, era rimasto colpito dalla sincerità dell'uomo più anziano. «Certo», disse.
Kennard rifletté per qualche istante, poi disse: «Non biasimate Taniquel perché vi ha lasciato solo proprio ora, nel momento in cui avreste maggiormente bisogno di lei. So quello che provate... per tutti gli inferni di Zandru, lo so bene!» aggiunse, scuotendo la testa, come se gli fosse ritornato in mente un caso personale. «Ma anche Taniquel sa quello che deve fare. Quando è in corso un'operazione sulle matrici, e in particolar modo una grossa operazione come questa, l'astinenza sessuale è di regola, ed è una cosa necessaria. E Taniquel è una ragazza troppo intelligente per prendere alla leggera questa cosa. Anzi, qualcuno di noi avrebbe dovuto parlarvene già da tempo.»
«Non credo di capire», disse lentamente Kerwin, ribellandosi a quell'idea. «Perché dovrebbe fare qualche differenza?»
Kennard gli rispose con un'altra domanda. «Perché, secondo voi, si richiede alle Guardiane di essere vergini?»
Kerwin non ne aveva la più pallida idea, ma improvvisamente gli parve che contribuisse a spiegargli il comportamento di Elorie. In superficie, era una bella ragazza, non meno bella di Taniquel, ma era asessuata come una bambina di sette o otto anni. Anche Rannirl aveva accennato alla "verginità rituale"... ed Elorie era inconsapevole della propria bellezza come poteva esserlo una bambina. Anzi, ancora di più, perché in genere le bambine di otto o nove anni erano ben coscienti della loro femminilità e già mostravano segni di civetteria. Elorie, invece, in qualche modo, sembrava ignorare del tutto la propria femminilità.
«In passato veniva considerata come una parte del rituale», disse Kennard. «Ma queste sono sciocchezze. Resta il fatto che per una donna è molto pericoloso lavorare in posizione polare-centrale in un cerchio di matrici, dosando i flussi di energoni, a meno che non sia vergine; ha qualcosa a che fare con le correnti nervose. Anche ai margini del cerchio, come controllori, le donne osservano un periodo di castità prima di usare le matrici. Quanto a voi... be', vi occorrerà tutta la vostra energia nervosa e tutta la vostra forza, questa sera, e Taniquel lo sa. Di conseguenza, andate a dormire. Da solo. E tanto vale che vi avverta, se non ve ne siete già accorto da solo, che, dopo avere lavorato nel Cerchio, per vari giorni non sarete in grado di fare molto, con una donna. Non preoccupatevi, è un semplice effetto collaterale del prelievo di energia.» Posò una mano sul braccio di Kerwin, come avrebbe potuto fare un padre. «Il guaio, Jeff, è che vi siete integrato con noi così bene che tendiamo a scordare che non siete cresciuto qui; diamo per scontato che conosciate tutte queste cose, senza bisogno di dirvele.»
Commosso dall'affetto di Kennard, Jeff disse a bassa voce: «Grazie... cugino». Per la prima volta, lo disse senza imbarazzo. Dopotutto, era stato fratello adottivo di Cleindori, sua madre; e Kerwin sapeva che la tradizionale adozione dei giovani, su Darkover, creava legami familiari che in molti casi erano più forti di quelli di sangue.
Chiese d'impulso: «Hai conosciuto mio padre, Kennard?»
L'uomo più anziano ebbe qualche istante di esitazione. Poi disse, lentamente: «Sì. Anzi, potrei dire di averlo conosciuto molto bene. Meno di quanto avrei voluto, perché se lo avessi conosciuto meglio, le cose sarebbero state diverse. Invece, non ho potuto fare niente per cambiare la situazione».
«Com'era mio padre?» chiese Kerwin.
Kennard sospirò. «Jeff Kerwin? Non ti assomigliava. Tu assomigli a mia sorella Cleindori. Kerwin era grande, bruno ed eminentemente pratico; un uomo senza grilli per la testa. Ma aveva molta immaginazione. Lewis, mio fratello, lo conosceva meglio di me. È stato lui a presentarlo a Cleindori.» Kennard aggrottò all'improvviso le sopracciglia e disse: «Senti, non è il momento adatto per parlare di queste cose. Va'a riposare».
Kerwin sentì che Kennard era preoccupato. All'improvviso, forse per qualche immagine colta nella mente dell'uomo più anziano, chiese: «Kennard, come è morta mia madre?»
Kennard serrò le labbra. Disse: «Non chiederlo a me, Jeff. Prima che mi permettessero di portarti qui...» s'interruppe, ovviamente per riflettere su quel che poteva dire, e Kerwin notò che l'uomo più anziano aveva bloccato la propria mente per impedirgli di cogliere i suoi pensieri. Poi Kennard riprese: «A quell'epoca c'ero anch'io ad Arilinn. E mi chiesero di ritornare perché erano privi di personale dopo... dopo quello che era successo. Ma prima che mi permettessero di farti venire, mi fecero giurare di non rispondere a certe domande, e questa è una. Jeff, il passato è passato. Pensa all'oggi. Ogni persona di Arilinn, ogni persona dei Regni, deve rinunciare a pensare al passato e occuparsi soltanto di migliorare le condizioni di Darkover e della nostra gente». Sulla sua faccia c'era la traccia di un antico dolore, ma continuava a tenere la mente schermata.
«Jeff, quando sei venuto, avevamo molti dubbi nei tuoi confronti. Ma adesso, che si vinca o si perda, sei uno di noi. Un vero darkovano, e un vero Comyn. Questo pensiero non sarà forse rassicurante come avere Taniquel con te», aggiunse, tentando di fare il brillante, «ma dovrebbe aiutarti, almeno un poco. Adesso, va' a dormire... cugino.»
Vennero a chiamarlo quando si stava alzando la prima luna. La Torre di Arilinn aveva un aspetto strano, vuoto, nel pieno della notte, e nella stanza delle matrici regnava un silenzio pieno di echi. Si raccolsero, parlando a bassa voce, e il buio attorno a loro parve quasi una cosa viva, una presenza reale che chiedeva di non essere disturbata. Kerwin si sentiva vuoto, esausto. Notò che Kennard zoppicava più del solito; Elorie era insonnolita e imbronciata, e Neyrissa rispose seccamente quando Rannirl cercò di fare qualche battuta.
Taniquel sfiorò la fronte di Kerwin, che sentì il contatto dei suoi pensieri, leggero come una piuma, il rapporto sicuro. Ora, Kerwin non si ritrasse. «È a posto, Elorie», annunciò la ragazza.
Elorie passò lo sguardo da Taniquel a Neyrissa. «Tu, Taniquel, fa' da controllore. Abbiamo bisogno di te nel Cerchio, Neyrissa», spiegò, nel vedere l'aria delusa della donna più anziana. «Sei più forte e hai lavorato più a lungo con le matrici.» E, poiché Kerwin non capiva, si rivolse a lui per spiegare: «Quando lavoriamo in un Cerchio come questo, ci occorre un controllore che rimanga all'esterno del Cerchio, e Taniquel è la migliore empatica che abbiamo; resterà in rapporto mentale con ciascuno di noi, e se uno di noi dimenticherà di respirare, o avrà i crampi, se ne accorgerà in tempo e prenderà le opportune misure per impedirci di avere dei danni fisici. Auster, tu ti occuperai delle barriere», continuò, e di nuovo aggiunse, a beneficio di Kerwin: «Ognuno di noi lascerà cadere la barriera personale, e lui ne creerà una collettiva, che ci eviterà di essere spiati telepaticamente; se qualcuno tentasse di interferire dall'esterno, Auster se ne accorgerebbe. Un tempo, su Darkover, c'erano dei nemici, e per quello che sappiamo ce ne potrebbero essere ancora. La barriera intorno al gruppo delle nostre menti ci proteggerà».
Intanto, Kennard aveva preso uno dei piccoli reticoli-matrice, una spessa lastra di vetro con incastonate piccole matrici, come quelli che avevano costruito nei giorni precedenti. Lo puntava contro ciascuno dei membri del Cerchio, aggrottava la fronte e regolava una manopola calibrata. Qua e là, all'interno del vetro, si accendeva qualche minuscola luce. Poi disse, in tono distaccato: «La barriera di Auster dovrebbe reggere, ma per maggiore sicurezza metterò un attenuatore attorno alla Torre. Secondo livello, Rannirl?»
«Terzo livello, direi», intervenne Elorie.
Kennard sollevò le sopracciglia. «Così facendo, in tutti i Regni capiranno che ad Arilinn si sta facendo qualcosa d'importante!»
«Non fa niente», rispose Elorie, con indifferenza. «Ho già chiesto alle altre Torri di escludere Arilinn dai relè di comunicazione. Sono fatti nostri.»
Kennard terminò il lavoro che stava facendo con l'attenuatore e cominciò a stendere sul tavolo le carte geografiche. Posò sul ripiano anche un buon numero di matite colorate. Chiese a Elorie: «Vuoi che sia io, a scrivere, oppure lo facciamo fare a Kerwin?»
«No, scrivi tu», rispose la Guardiana di Arilinn. «Voglio Jeff e Corus nel cerchio esterno. Corus ha una forza psicocinetica sufficiente a estrarre i minerali, in futuro, e Jeff ha un ottimo senso di percezione strutturale. Jeff...» disse poi, indicandogli il posto che doveva occupare, dietro Rannirl. «E qui, invece, Corus.»
Il grande reticolo-matrice era già al suo posto, davanti a Elorie.
Auster annunciò: «Tutto a posto, qui».
A Kerwin parve che il silenzio della stanza illuminata dalla luna diventasse ancor più profondo; nell'aria immobile, si aveva l'impressione di essere isolati dal resto del mondo, che il loro stesso respiro diventasse più profondo e sonoro. Un'immagine gli passò per la mente, e capì che gliela aveva trasmessa Corus, sfiorandogli i pensieri con un leggerissimo rapporto mentale: Una robusta parete di cristallo attorno a noi, trasparente ma impenetrabile... Sentì perfettamente le pareti della Torre di Arilinn, non quella materiale, ma la sua immagine nel mondo della mente, in un certo senso un archetipo di Torre, e da qualcuno del Cerchio gli giunse un altro pensiero: S'innalza in questo punto da secoli e secoli...
Elorie aveva congiunto le mani e le aveva posate sul ripiano del tavolino; a Kerwin era stato ripetuto molte volte: Non toccare mai una Guardiana, neppure accidentalmente, quando il Cerchio è formato,e a dire il vero nessuno di loro toccava mai Elorie, neanche nella grande sala di riunione, anche se qualche volta poteva succedere che Rannirl, il quale, come tecnico, conosceva meglio di ogni altro i flussi delle energie, la aiutasse a mantenere l'equilibrio reggendola per il braccio; ma Elorie non toccava mai nessuno. Lo stesso Kerwin se ne era accorto fin dal primo momento: la ragazza si avvicinava a loro, passava ai compagni qualche pillola medicinale o qualche altro piccolo oggetto, si fermava accanto a uno del Cerchio, ma non toccava mai nessuno: era uno dei tabù che pesavano sulle Guardiane, e vietava loro qualsiasi contatto fisico. Eppure, anche se vedeva le sottili mani di Elorie sul tavolino, Kerwin sentì che le sollevava e che toccava ciascuno di loro; anche gli altri, gli sembrò, si presero per mano, formando un fitto intreccio di strette, eppure — Kerwin ne ebbe la netta impressione, e capì che era condivisa da ciascuno degli altri — gli parve che fosse Elorie a tenerlo per una mano e Taniquel, il controllore, per l'altra. Kerwin si sentì improvvisamente un nodo alla gola, quando si vide fissare dagli occhi grigi di Elorie; gli occhi della Guardiana scintillavano come il vetro fuso dello schermo di matrici; sentì che Elorie li attirava tutti verso di sé, come un gruppo di luci prese in una rete, e ciascuno di loro aveva il proprio colore: il caldo rosa di Taniquel che li sorvegliava, il chiarore di diamante, gelido e cristallino di Auster, la luce di colore ancora indefinibile di Corus, tutti presi nella rete di raggi di luna maneggiata da Elorie...
Attraverso gli occhi di Kennard, Jeff vide poi le carte geografiche stese sul tavolo. Kerwin si librò fino a quelle, e quando le raggiunse si sentì trasportare all'esterno della Torre, e volò senza corpo, volò senza ali, sopra una grande distesa di terreno, magneticamente trasportato dalla pura forma del campione metallico posato accanto alla grande matrice reticolare. Gli parve di potersi allontanare all'infinito, senza vincoli fisici; poi Rannirl proiettò in fretta un altro schema in rapido movimento, e Kerwin, senza sorpresa, cominciò a tastare con le dita, e con tutta la forza della sua mente e tutta la sua concentrazione, un modello molecolare che aveva già avuto nelle mani quando Corus lo aveva costruito con palline di creta e stecchini. Ma adesso, attraverso le dita di Corus, sentì il movimento degli elettroni, lo strano amalgama di cui era composto il nucleo, e insieme la struttura cristallina del metallo da loro cercato.
Era il rame. La sua struttura pareva venire fuori dalla carta geografica, che adesso aveva acquisito le caratteristiche stesse del terreno, e Kerwin sentì la presenza del metalli. Non era come immergere le mani nella struttura del vetro per cercarvi qualcosa. Adesso, la carta geografica e le fotografie erano divenute il terreno stesso, e Kerwin sentiva il tessuto del suolo e delle pietre, dell'erba e degli alberi, e soprattutto, come una corrente magnetica, la presenza del metallo cercato. Non appena trovato il rame, tutte le altre strutture sparirono, e Kerwin si trovò a far parte della struttura stessa del rame: il rame era lui,Kerwin era l'intero filone, nascosto sotto la terra, legato ad altri atomi sconosciuti. Per un momento, tutto si sovrappose ai suoi occhi: la mappa divenne il territorio e il territorio divenne il filone, e insieme Kerwin divenne tutti i membri del Cerchio. Con gli occhi di Rannirl riconobbe la parte della cartina che lo aveva attirato: una zona dei Monti Kilghard, con burroni e crepacci, alte vette appuntite, rocce e alberi, e sovrapposto a questi, il filone di rame. Insieme, con gli occhi di Kennard, vide la punta di una matita color arancione che scorreva sulla superficie della cartina, per tracciare linee e segni che ai suoi occhi non significavano nulla, preso com'era dall'immedesimazione con il metallo. Tuttavia, con un'altra parte della sua mente, capì che anche quel segno era lui, che Kennard seguiva il suo cammino nel filone, misurava le distanze e le segnava sulla cartina. Ma il richiamo del metallo con cui si era immedesimato era troppo forte. Lasciò il filone e andò a cercarne un altro, sulla carta e fra gli strati della matrice reticolare, che era a sua volta la cartina e la superficie del pianeta.
Non seppe mai — poiché il tempo smise di avere significato in quanto tale — per quante ore volasse e si tuffasse nelle viscere della terra, fra sabbia e pietra, lava e acqua, alla ricerca di correnti magnetiche. Ogni volta, la sensibilità di Rannirl andò a riprenderlo e lo riportò a Kennard e alle sue matite, per trasferirlo sulla carta. Ma alla fine il suo folle volo si fermò. Sentì Corus (un liquido che all'improvviso si trasformava in cristallo) staccarsi dalla rete con una sensazione come di vetro spezzato; sentì Rannirl uscire da un varco invisibile; sentì che Elorie apriva delicatamente la mano e posava Kennard sulla sua sedia come vi avrebbe posato una bambola; poi, con un dolore bruciante, Kerwin precipitò in caduta libera, fuori della rete; Auster (una parete di vetro che si spezzava per liberare un prigioniero) trasse un profondo respiro e, al limite della resistenza, appoggiò la testa sul tavolo. Un filo invisibile si spezzò e Neyrissa cadde come da una grande altezza. La prima cosa che Kerwin riuscì a vedere fu Taniquel, che ansimava e che si massaggiava i muscoli indolenziti. Poi vide che Kennard, con le articolazioni doloranti, lasciava cadere un mozzicone di matita e, con una smorfia di dolore, si massaggiava le dita per far loro riprendere la circolazione. Kerwin, con un residuo della sensibilità posseduta quando era unito al Cerchio, riuscì a vedere il gonfiore alle nocche, e capì quale fosse la sua affezione: una forma di artrite — causata da un'auto-immunità, avrebbero detto i medici terrestri — che lo aveva azzoppato e che a lungo andare lo avrebbe paralizzato. Quando Kerwin posò lo sguardo sulla cartina, vide che era coperta di simboli misteriosi. Elorie trasse un sospiro, stancamente, e si passò le mani sulla faccia, e subito Taniquel corse da lei, preoccupata, e passò su di lei le mani, ma alla maniera dei controllori, cioè a un centimetro di distanza dalla fronte.
Poi Taniquel disse: «Basta così. Corus ha quasi avuto un arresto cardiaco, e Kennard soffre troppo».
Elorie si reggeva in piedi a fatica, ma volle raggiungere Rannirl e Kennard, che studiavano le cartine. Sfiorò gentilmente la mano gonfia di Kennard, come per fargli capire che non era insensibile al suo dolore, e disse, lanciando un'occhiata a Kerwin: «Avete notato che Jeff ha fatto tutto il lavoro strutturale?»
Kennard sollevò la testa e sorrise per un istante a Kerwin. Continuava ancora a massaggiarsi le nocche delle dita, con aria di profonda concentrazione, come se gli facessero male, e Taniquel gli prese la mano e la strinse tra le sue, per poi fissarla con grande attenzione. Lentamente, Kerwin vide distendersi il volto dell'uomo più anziano, come se la ragazza avesse assorbito da lui il suo dolore. Kennard disse: «È sempre stato lui, per tutto il tempo, a conservare l'identità delle strutture; la ricerca è stata facile, con lui nel cerchio. Diventerà un tecnico bravo come te, Rannirl», aggiunse.
«Allora, non gli fai un complimento», disse Rannirl. «Io sono un meccanico e non un tecnico. Posso fare il lavoro del tecnico, certo, ma non faccio bella figura quando è presente un tecnico vero. Kerwin potrebbe prendere il mio posto di tecnico già adesso, se lo volesse; anche tu, Kennard, potresti prenderlo, se ne avessi le forze.»
«Grazie, ma preferisco lasciarlo a Jeff», disse Kennard, sorridendo a Rannirl. Fece un passo avanti, e per qualche istante si appoggiò a Taniquel. Kerwin lesse chiaramente il pensiero della ragazza: È troppo vecchio per questo lavoro così faticoso,e un'imprecazione carica di risentimento: Maledizione, perché siamo così pochi?
«Comunque, ce l'abbiamo fatta», disse Corus, osservando le cartine. Con la punta del dito, Elorie seguì alcune linee e disse:
«Guardate, Kennard ha misurato ogni deposito di rame dei Monti Kilghard, ha segnato i posti dove il minerale è più ricco, oltre a quelli dove i filoni sono così piccoli da risultare inutili. Anche la profondità è segnata, e la quantità totale e la composizione chimica del minerale, per poter sapere in anticipo l'attrezzatura occorrente per lo scavo.» E, nonostante la stanchezza, aggiunse in tono esultante: «Portatemi qui i terrestri che riuscirebbero a fare altrettanto, nonostante la loro tecnologia!»
Poi si stirò come un gatto. «Capite che cosa abbiamo fatto?» chiese. «La cosa ha funzionato... il Cerchio ha funzionato! Adesso siete contenti di avermi dato retta? Chi sono i barbari, adesso?» Si avvicinò a Jeff e tese le mani verso di lui, sfiorandolo con la punta delle dita: un gesto, comprese lui, che, tenendo presenti tutti i tabù a cui era sottoposta Elorie, sarebbe equivalso, per un'altra ragazza, a un abbraccio. «Oh, Jeff, sapevo di poter contare su di voi, siete così forte, ci avete aiutato così tanto!»
D'impulso, Jeff le strinse le mani; ma Elorie impallidì e si tirò indietro di scatto; per un attimo, incrociò lo sguardo con quello di Jeff, e lui lesse nei suoi occhi il panico. Elorie abbassò le mani, spaventata, e guardò Kerwin come per implorarlo di non insistere; ma fu cosa di un attimo, perché, dopo un istante, le mancarono le ginocchia e sarebbe caduta a terra se Neyrissa non l'avesse sorretta.
«Appoggiati a me, Elorie», le disse la donna più anziana. «Sei sfinita, e non me ne stupisco certamente, dopo tutto quello che hai fatto.»
Elorie si coprì gli occhi come una bambina, con i pugni chiusi. Neyrissa la tenne fra le sue braccia robuste e disse: «La porto nella sua stanza e vedo di farle mangiare qualcosa.»
Anche Kerwin si accorse all'improvviso che tutti i muscoli gli facevano male. Si stirò le braccia e si voltò verso la finestra, da cui si scorgeva il sole già alto nel cielo. Non si era nemmeno accorto che l'alba fosse passata da un pezzo. Erano rimasti in rapporto, nel reticolo della matrice, per più di una notte!
Rannirl arrotolò con cura le cartine. «Tra pochi giorni», disse, ripeteremo la ricerca, e questa volta per il ferro», disse. «Poi stagno, piombo, alluminio... La prossima volta sarà più facile, ora che sappiamo come utilizzare Jeff nella rete.» Sorrise a Jeff e disse: «Sapete che è la prima volta che si forma un Cerchio ad Arilinn, dopo dodici anni e più?» Poi guardò dietro di lui e aggrottò la fronte. «Auster, che cosa c'è, cugino? È un momento in cui dovremmo rallegrarci!»
Auster fissava con odio Kerwin, e questi capì: È irritato per la mia riusata.
Voleva che io fallissi... che tutto il gruppo fallisse. Ma perché?
CAPITOLO 11
OMBRE SUL SOLE
Lo stato di depressione continuò anche dopo che Kerwin ebbe smaltito la stanchezza con un buon sonno. Quando si vestì per unirsi agli altri, verso il tramonto, si disse che non doveva permettere alla malizia di Auster di rovinargli la giornata. Aveva superato la prova più dura, il rapporto mentale completo come membro del Cerchio, e la riunione di quella sera doveva essere il suo trionfo. Auster lo aveva sempre avversato, e probabilmente era geloso perché tutti si erano complimentati con lui. Niente di più.
Adesso, sapeva, avrebbero avuto qualche giornata libera, e lui contava di passarla con Taniquel. Nonostante l'avvertimento di Kennard sulla castità, si sentiva pienamente in forze ed era ansioso di stare con la ragazza. Si chiese se avrebbe accettato di passare la notte con lui, e sorrise tra sé, a quell'idea; dopotutto, lo aveva già fatto altre volte. Ma non c'era fretta, si disse; se non quella notte, un'altra.
Gli altri, che si erano svegliati prima di lui, erano già scesi nella sala. La semplicità stessa dei loro saluti, quando Kerwin li raggiunse, gli fece bene al cuore: era uno di loro, uno della famiglia. Accettò con piacere un bicchiere di vino e si accomodò al suo posto abituale. Dopo qualche tempo, accanto a lui si venne a sedere Neyrissa, che portava con sé un grosso cestino con i suoi lavori di ricamo. Kerwin cominciava a mordere il freno, ma si disse che c'era ancora tempo. Si guardò attorno, cercando Taniquel, ma la ragazza — seduta vicino al caminetto a parlare con Auster — in quel momento gli girava la schiena, e lui non poteva farle nessun cenno con lo sguardo.
«Che cosa ricamate, Neyrissa?» chiese, per passare il tempo.
«Una coperta per il mio letto», rispose la donna. «Voi non sapete ancora come faccia freddo, in questa regione, durante l'inverno; inoltre, mi serve per tenere le mani occupate.» Sollevò il tessuto per mostrarlo a Kerwin: era una trapunta bianca, con grappoli di ciliegie ricamate in tre gradazioni di rosso, le foglie verdi, e sull'orlo un motivo che ripeteva le tre tonalità delle figure. Adesso Neyrissa la stava cucendo alla fodera, con piccoli punti che formavano disegni di onde e di riccioli. Kerwin rimase stupefatto nel constatare la quantità di studio e di lavoro che la donna doveva avere dedicato a quella coperta; non aveva mai pensato che Neyrissa, controllore di Arilinn e dama dei Comyn, trascorresse il tempo in compiti così noiosi.
Ma lei alzò le spalle. «Come ho detto, mi serve per tenere le mani occupate quando non ho altro da fare», disse. «E, inoltre, sono orgogliosa del mio cucito.»
«È molto bello», rispose Kerwin. «Un ricamo come questo non avrebbe prezzo, sui pianeti che conosco, perché la gente si fa fare le coperte molto in fretta e senza fatica, a macchina.»
Lei rise. «Penso che non riuscirei a dormire, se dovessi coprirmi con una coperta fatta a macchina», disse. «Sarebbe come andare a letto con un uomo meccanico. Si dice che abbiano cose del genere negli altri mondi, ma non credo che le donne siano molto soddisfatte. Io preferisco le cose genuine... sia sopra che sotto le lenzuola.»
A Jeff occorse qualche istante per capire finalmente i doppi sensi — che erano un po' più spinti in casta che nella lingua di Thendara — ma essi sarebbero stati ben comprensibili a qualsiasi telepatico, anche a quelli con meno laran di lui. Perciò fece una risatina, leggermente imbarazzato. Tuttavia, la donna lo fissò in modo così aperto che Jeff perse ogni imbarazzo e rise senza preoccupazioni.
«Già, avete davvero ragione», aggiunse. «Per certe cose sono davvero meglio i metodi naturali.»
«Parlatemi del vostro lavoro per l'Impero, Jeff. A volte mi dico che se fossi stata un uomo me ne sarei andata su altri mondi. Non ci sono molte avventure da vivere, nei Monti Kilghard, soprattutto per una donna. Siete stato su molti mondi?»
«Due o tre», ammise Kerwin, «ma nel Servizio Imperiale non avete occasione di vedere molto; io mi sono soprattutto occupato di apparecchi di comunicazione.»
«E con i vostri macchinari per la comunicazione fate le stesse cose che facciamo noi con i relè?» chiese la donna, incuriosita. «Parlatemi di come funzionano, se potete. Lavoro sui relè da quando avevo quattordici anni, e mi sembra strano che la stessa cosa si possa fare con una macchina. Non ci sono lettori del pensiero nell'Impero Terrestre?»
«Se ci sono, non lo dicono a nessuno», rispose Kerwin. «I medici, all'occorrenza, sanno misurare il potenziale ESP di una persona, e hanno qualche macchina capace di leggere nei pensieri, ma sono molto superficiali, rispetto a quello che si fa nelle Torri.»
Parlò a Neyrissa della rete di comunicazioni tra i vari pianeti dell'Impero, e accennò ai ripetitori interstellari; spiegò anche la differenza tra comunicazione per onde radio e per onde iperspaziali. Scoprì che la donna capiva in fretta le macchine e afferrava senza difficoltà la teoria — a dispetto di quanto ritenevano i suoi ex colleghi del Quartier Generale Terrestre — anche se l'idea di servirsi di macchine le era antipatica.
«Mi piacerebbe provare a usarle», disse, «ma solo come divertimento. Penso che i relè delle Torri siano più veloci e più sicuri, e che invece quelle macchine tendano a guastarsi spesso.»
«Avete fatto questo per tutta la vita?» chiese Kerwin, chiedendosi quanti anni avesse. Intorno ai quaranta? «Perché siete entrata in una Torre, Neyrissa? Non vi siete mai sposata?»
Lei scosse la testa. «Non ho mai provato il desiderio di sposarmi», disse, «e per una donna dei Regni di Darkover, la scelta è tra le Torri e il matrimonio, a meno che...» rise, «non volessi tagliarmi i capelli e prendere la spada, prestando il giuramento delle Rinunciatarie... le Libere Amazzoni! E avevo visto che cosa era successo alle mie sorelle che si erano sposate: passavano la vita a obbedire ai capricci di qualche uomo e a scodellargli un figlio dopo l'altro, finché a trent'anni erano brutte e sfatte, consumate dalle gravidanze e capaci solo di pensare ai bambini, al bucato e alle galline! Non era un genere di vita che mi attirasse, e così, quando mi fecero la prova del laran,venni qui come controllore; il lavoro delle Torri mi piace, e anche la vita che facciamo.»
A Kerwin venne in mente solo in quel momento che da giovane doveva essere stata una bella ragazza: lo si vedeva ancora dalla linea aristocratica della sua faccia, dai capelli rossi appena segnati da qualche filo grigio; e il suo corpo era ancora flessuoso come quello di Elorie. Disse, in tono galante: «Sono certo che molti devono avere rimpianto quella decisione».
Neyrissa incrociò lo sguardo con il suo, per un solo istante. Disse: «Non sarete talmente ingenuo da pensare che abbia anche preso i voti di Guardiana? Ho dato un figlio a Rannirl dieci anni fa, sperando che ereditasse il mio laran; l'ho dato in adozione a mia sorella, perché non avevo voglia di portarmi dietro un bambino piccolo. Avrei voluto dare un figlio anche a Kennard, perché non aveva eredi e i Comyn del Consiglio erano scontenti di lui, ma poi decise di risposarsi. Non approvavano che sposasse quella donna, ma lei gli diede due figli, e così accettarono come suo Erede il primogenito... anche se non fu facile convincerli. E sono soddisfatta, perché qui c'è bisogno di me, anche se adesso si è scoperto che Taniquel ha laran sufficiente per fare il controllore. Comunque, Taniquel è giovane. Probabilmente, finirà per lasciare la Torre e per sposarsi; molte giovani lo fanno. Sono rimasta sorpresa quando Elorie è venuta qui; ma è figlia del vecchio Kyril Ardais, la cui fama di libertino è ben nota da Dalereuth agli Hellers; dopo avere visto come aveva sofferto sua madre, sono certa che Elorie non avesse alcuna voglia di sposarsi, e che avesse paura degli uomini. È mia sorellastra, dovete sapere; anch'io sono una delle figlie illegittime del vecchio Dom Kyril».
Parlava con distacco. «Sono stata io a farla venire qui, anzi. Il vecchio voleva farla cantare per intrattenere i suoi compagni di bevute, e una volta, quando era ancora piccola, uno di loro ha cercato di fare degli approcci con lei, di metterle le mani addosso... nostro fratello voleva ucciderlo. Dopo quell'episodio, si è lamentato con il Consiglio, ed Elorie è stata portata ad Arilinn. Dyan ha fatto una petizione al Consiglio perché deponessero nostro padre e nominassero lui Reggente, in modo che il Regno non si facesse una cattiva fama a causa del pessimo comportamento del suo capo. Per Dyan è stato un grande sacrificio, perché è un buon musicista e ha doti di guaritore; voleva studiare l'arte della guarigione a Nevarsin, ma adesso ha sulle spalle il peso del Regno. Mi accorgo di essere scivolata nei pettegolezzi», aggiunse, con un sorriso. «Alla mia età, credo che sia perdonabile. Ho portato Elorie qui, come ho detto, sperando che potesse essere un controllore, o magari un tecnico, perché ha una buona testa. Invece, hanno scelto di addestrarla come Guardiano, e così siamo l'unica Torre di Darkover che ha una Guardiana pienamente qualificata, come ai vecchi tempi. Suppongo che dovremmo andarne fieri; ma mi dispiace per Elorie. È una vita dura; e poiché è l'unica Guardiana che abbiamo — anche se c'è una ragazzina a Neskaya che sta seguendo l'addestramento — si sente in dovere di non lasciare la Torre, diversamente da tante altre Guardiane del passato, che lo facevano quando il peso del loro lavoro diventava insopportabile. È un peso molto gravoso», disse, guardando Kerwin negli occhi, «e nonostante il fatto che la Signora di Arilinn è superiore a qualsiasi regina, io non vorrei esserlo, e non lo augurerei a una mia figlia.»
Aveva il bicchiere vuoto; si sporse verso Kerwin e gli chiese di riempirglielo. Kerwin si alzò e raggiunse il tavolo delle bevande. Accanto a esso, Corus ed Elorie facevano qualche strano gioco con dadi di cristallo. Invece, Rannirl aveva in mano un ritaglio di cuoio e se ne serviva per fare il cappuccio a un falcone.
Taniquel era ancora accanto al fuoco, tutta presa dalla sua conversazione con Auster; Kerwin cercò di incrociare il suo sguardo, per farle segno di unirsi a lui; un segnale che la ragazza conosceva bene. Si aspettava che trovasse qualche scusa per lasciare Auster e che lo raggiungesse.
Ma lei si limitò a rivolgergli un sorriso e a scuotere la testa. Stupito e offeso, Kerwin guardò le sue mani che stringevano quelle di Auster, le loro teste accostate. Parevano assorti nella conversazione. Kerwin riempì il bicchiere di Neyrissa e lo portò a lei, sempre più perplesso. La ragazza non gli era mai parsa desiderabile come ora, ora che i suoi sorrisi andavano tutti ad Auster. Kerwin tornò a sedere accanto a Neyrissa e le diede il bicchiere; dallo stupore passò al risentimento. Come poteva fargli quello? Che si divertisse a prenderlo in giro?
Con il passare del tempo, cadde sempre più nella depressione. Ascoltò senza interesse i pettegolezzi di Neyrissa, non raccolse i tentativi di conversazione di Kennard e di Rannirl; dopo qualche tempo, tutti pensarono che fosse ancora stanco e lo lasciarono solo. Corus ed Elorie terminarono la partita e ne incominciarono un'altra; Neyrissa si recò da Mesyr con il suo lavoro di ricamo e le chiese consiglio; le due donne presero un cestino di fili colorati e confrontarono fra loro i colori. Era una pacifica scena domestica, tranne per Kerwin, per il quale la testa di Taniquel sulla spalla di Auster era come una ferita aperta. Più volte Kerwin si disse che era uno sciocco a stare a guardarli e che avrebbe fatto meglio ad andarsene, ma si sentiva troppo offeso per farlo. Perché quella ragazza lo trattava così?
Più tardi, Auster si alzò per riempire i bicchieri e Kerwin ne approfittò per recarsi da Taniquel; Kennard alzò la testa preoccupato, nel vedere che si avvicinava alla ragazza e le toccava il braccio.
«Vieni con me», disse Kerwin. «Voglio parlarti.»
Lei alzò gli occhi, stupita e contrariata; si diede un'occhiata attorno — Kerwin sentì nettamente la sua esasperazione, unita al desiderio di non fare scenate — e disse: «Andiamo sul terrazzo».
Il sole era ormai tramontato e la nebbia si addensava; presto sarebbe caduta la pioggia. Taniquel rabbrividì e si strinse nello scialle. Disse: «Fa troppo freddo per rimanere qui a lungo. Che cosa c'è, Jeff? Perché hai continuato a guardarmi in quel modo per tutto il tempo?»
«Come, non lo capisci?» fece lui, con ira. «Non hai nessuna comprensione? Abbiamo dovuto aspettare che...»
«Sei geloso?»domandò lei, in tono scherzoso. Jeff la attirò fra le sue braccia e la baciò con foga, sulle labbra; lei trasse un sospiro e sopportò il bacio senza restituirlo. Afferrandola per le braccia, Kerwin disse con voce roca: «Avrei dovuto sapere che volevi solo stuzzicarmi, ma non sopportavo di vederti con Auster, proprio sotto i miei occhi...»
Taniquel si staccò da lui, perplessa e irritata: Kerwin glielo lesse chiaramente nei pensieri.
«Jeff, non essere così stupido! Non vedi che Auster ha bisogno di me in questo momento? Non lo capisci? Non hai sentimenti, non hai proprio nessuna gentilezza? Questo è il tuo trionfo... e la sua sconfitta, non capisci?»
«Vuoi dire che adesso sei contro di me?»
«Jeff, io semplicemente non ti capisco», disse lei. Alla luce della finestra dietro le sue spalle, Kerwin vide che aggrottava la fronte. «Perché dovrei essere contro di te? Dico solo che Auster ha bisogno di me... adesso, questa notte... più di quanto ne abbia bisogno tu.» Taniquel si alzò in punta di piedi e lo baciò, ma lui la tenne lontana, mentre cominciava a capire le sue parole.
«Dici davvero quello che mi pare di avere capito?»
«Che cos'hai, Jeff? Non riesco a farmi capire da te, questa sera?»
Kerwin rispose, con un nodo alla gola: «Io ti amo. Ti desidero; è così difficile da capire?»
«Anch'io ti amo, Jeff», rispose lei, con una punta di insofferenza. «Ma che cosa c'entra? Devi essere stanco, altrimenti non parleresti così. Che cosa ha che vedere con te, se per questa notte Auster ha bisogno di me, più di quanto non ne abbia bisogno tu, e se decido di aiutarlo nel modo che gli occorre?»
Kerwin chiese, senza preamboli: «Vuoi dirmi che intendi andare a letto con lui?»
«Ma, certamente!»
Kerwin sentì un sapore amaro in bocca: «Sgualdrina!»
Taniquel fece un passo indietro, come se l'avesse colpita. Alla luce proveniente dalla finestra, Kerwin vide che era impallidita; le efelidi spiccavano sul suo volto come macchie scure.
«E tu sei un bruto egoista», ribatté lei. «Barbaro,come ti ha chiamato Elorie, e peggio ancora! Voi... voi terrestri pensate che le donne siano una vostra proprietà! Ti amo, sì, ma non quando ti comporti in questo modo!»
Kerwin fece una smorfia. «Quel tipo di amore, posso comprarlo in qualsiasi bar dello spazioporto!»
Taniquel lo schiaffeggiò: un colpo secco, doloroso. «Tu...» balbettò, senza parole. «Io appartengo a me stessa,capito? Prendi quello che ti do, e ti pare giusto; ma se lo do a un altro, sei pronto a chiamarmi sgualdrina. Maledizione alla tua testa piena di immondizia, terrestre! Auster ha sempre avuto ragione per ciò che riguarda te!»
Si staccò da lui, e Kerwin sentì i suoi passi che si allontanavano, decisi e senza pentimenti; dopo qualche istante sentì sbattere una porta.
Kerwin, rosso in faccia, non seguì la ragazza. Cominciava a piovere, e alla pioggia si mescolava la neve; con la mano se la tolse dalla guancia dolorante. Che cosa aveva combinato? Provò un cieco desiderio di nascondersi, di non farsi vedere da nessuno — tutti dovevano avere visto come Taniquel lo avesse rifiutato, come si fosse recata da Auster, e dovevano avere capito quel che significava — percorse in fretta il corridoio e salì alla sua stanza. Prima di raggiungerla, però, sentì dietro di sé alcuni passi pesanti, e vide giungere Kennard.
«Jeff, che cosa è successo?»
Non voleva affrontare Kennard proprio in quel momento. Entrò nella stanza e disse: «Sono ancora stanco. Andrò a dormire».
Ma Kennard entrò dietro di lui e gli posò le mani sulle spalle; poi, con una straordinaria forza fisica, lo fece voltare su se stesso e lo guardò in faccia. Disse: «Ascolta, Jeff, non puoi nascondercelo così. Se ne parlassi...»
«Maledizione», disse Jeff, con la voce rotta, «non si può avere nessuna intimità, in questo posto?»
Kennard abbassò la testa e trasse un sospiro. «La gamba mi fa male», disse. «Non mi fai sedere?»
Kerwin non poteva rifiutarglielo. Kennard si lasciò scivolare su una poltrona. Disse: «Senti, figliolo, tra noi, le cose si devono affrontare; non si possono nascondere e lasciar incancrenire. Bene o male che sia, sei un membro del nostro Cerchio.»
Jeff strinse di nuovo le labbra. Disse: «Lascia stare questa faccenda. È tra me e Taniquel, non riguarda il Cerchio».
«Non è affatto tra te e Taniquel», rispose Kennard. «È tra te e Auster. Ascolta, ogni cosa che succede ad Auster ci tocca tutti. Taniquel è un'empatica; non capisci come si sente, quando percepisce quel tipo di bisogno e di solitudine? Tu lo trasmettevi intorno a te, e noi lo sentivamo. Ma Taniquel, essendo un'empatica, è più vulnerabile degli altri. E dato che è una donna, ed è gentile, ha risposto al tuo bisogno: essendo un'empatica, non poteva sopportare la tua infelicità. Ti ha dato quello che ti occorreva, e quello che per lei era naturale dare.»
Kerwin mormorò: «Diceva di farlo perché era innamorata di me. E io le credevo».
Kennard allargò le mani, e Kerwin sentì che comprendeva perfettamente quel che provava. Però, l'uomo più anziano disse: «Per tutti gli inferni di Zandru, Jeff, sono solo parole! E ciascuno le usa a modo proprio!» Era quasi un'imprecazione. Toccò Jeff sul polso: il tocco che, tra due lettori del pensiero, era assai più significativo di un abbraccio o di una stretta di mano. Disse, gentilmente: «Lei ti vuole bene, Jeff. Tutti ti vogliamo bene. Sei uno di noi. Ma Taniquel... non può essere diversa da quello che è. Non capisci che cosa significa essere un'empatica? Quanto ad Auster, immagina che cosa prova un'empatica quando sente il tipo di disperazione che Auster provava questa sera. Lei non può sentire un'emozione simile senza reagire. Maledizione», disse, cercando di farsi capire, «se tu e Auster cercaste di capirvi meglio, anche tu sentiresti il suo dolore, e capiresti che cosa ha provato Taniquel!»
A dispetto di se stesso, Jeff cominciò a capire che cosa intendesse dirgli l'uomo più anziano. In un gruppo di telepatici, ogni emozione finiva per colpire tutti i membri del Cerchio. Lui, Jeff, li aveva disturbati tutti con la sua solitudine e il suo desiderio di essere accettato, e Taniquel aveva risposto alle sue emozioni come una madre che calma un bambino che piange. Ma ora che Jeff era felice e trionfante, mentre Auster era infelice e sconfitto, lei sentiva il bisogno di lenire il dolore di Auster...
Maledizione, è una cosa insopportabile! pensò con ira. Taniquel, la donna che amava, la prima donna che significasse qualcosa per lui, Taniquel tra le braccia dell'uomo che lo odiava, e... che stava male solo per stizza, perché lui non aveva fatto fiasco! Chiuse gli occhi per vincere il dolore di quel pensiero.
Kennard lo guardò con aria comprensiva, e Kerwin si sentì in imbarazzo, davanti alla sua pietà.
«Deve essere molto difficile, per te», disse. «Dopo avere passato tanto tempo fra i terrestri, hai adottato il loro nevrotico codice di comportamento. Le regole che valgono nelle Torri non sono le stesse che valgono nei Regni; non potrebbero esserlo, fra telepatici. Il matrimonio è un'istituzione piuttosto recente su Darkover; la monogamia è ancora più recente. E non è mai stata completamente accettata. Non posso certo biasimarti, Jeff. Tu sei come sei, proprio come Taniquel è quello che è. Solo, vorrei che tu non ti angustiassi tanto.» Si sollevò in piedi, a fatica, e uscì, mentre Kerwin coglieva qualche scia dei suoi pensieri. Anche Kennard, che aveva sposato una terrestre, aveva conosciuto il tormento di appartenere a due mondi e a nessuno dei due; aveva visto rifiutare i suoi figli perché non aveva avuto il coraggio di unirsi alla moglie adatta a lui che il Consiglio gli aveva trovato, ma che non poteva amare perché era troppo sensibile ai suoi pensieri più nascosti...
Per tutta la notte, Kerwin non riuscì a chiudere occhio per la collera, e verso l'alba giunse a una conclusione, definitiva anche se sgradevole. Per quella donna, non ne valeva la pena. Non intendeva permettere ad Auster di rovinargli l'esistenza, anche tenuto conto del fatto che dovevano lavorare insieme. Era irritante darla vinta ad Auster, ma dopotutto l'unica cosa che ci andasse di mezzo era il suo orgoglio. Se Taniquel voleva Auster, poteva tenerselo. Aveva fatto la sua scelta, e Jeff non avrebbe cercato di farla ritornare sulle sue decisioni.
Non era la migliore delle soluzioni, ma a suo modo poteva funzionare. Taniquel, con lui, era cortese ma glaciale, e Jeff la imitò. Ripresero il lavoro sugli schermi-matrice, sintonizzandoli sulle carte geografiche e sulle foto, e formarono di nuovo il Cerchio, questa volta per trovare minerali ferrosi, e poi, pochi giorni dopo, per cercare argento e zinco. La vigilia della quarta ricerca, Jeff si allontanò per una cavalcata tra le colline, e al ritorno trovò Corus ad attenderlo, pallido ed emozionato.
«Jeff! Elorie ci vuole tutti nella camera delle matrici. Subito!»
Seguì il ragazzo, curioso di sapere che cosa fosse successo. Gli altri erano già riuniti attorno al tavolino; Rannirl esaminava le cartine.
«Guai grossi», disse. «Ho parlato con i nostri compratori, subito dopo avere passato loro questa cartina. In tre distinti posti, qui, qui e qui...» li indicò sulla carta, «...la gente degli Hellers, i maledetti Aldaran e i loro uomini, hanno picchettato i terreni dove avevamo individuato i giacimenti di rame più ricchi; sapete bene quanto me che gli Aldaran sono semplici pedine in mano ai terrestri e alla loro Città Commerciale di Caer Donn; adesso fanno da prestanome all'Impero Terrestre e rivendicano quella terra per farvi una colonia industriale terrestre. Sono tenitori disabitati degli Hellers, inadatti all'agricoltura, e non credo che sia mai venuto in mente a qualcuno che vi si potesse trovare del minerale prezioso, sono luoghi inaccessibili. Come lo hanno saputo?»
«Coincidenza», suggerì Neyrissa. «Sapete che la gente di Aldaran è parente del popolo delle forge. Questi sono sempre alla ricerca di metalli, e sui monti usano i talismani del fuoco come noi usiamo le matrici.»
Auster disse con ira: «È impossibile che si tratti di coincidenza! È successo la prima volta che Jeff ha fatto parte del Cerchio! I prestanome della Terra si impadroniscono dei giacimenti più ricchi e ci lasciano per i nostri compratori solo minerali poveri, quasi impossibili da raffinare! Non uno, e neppure due, ma ben tre dei punti più ricchi!» Si girò verso Kerwin e lo fissò con ira. «Quanto ti pagano, i terrestri, per tradirci?»
«Se sei convinto di quello che dici, maledizione, allora sei ancor più idiota di quel che pensassi!» rispose Kerwin.
E Taniquel intervenne per dire, con irritazione: «So che Jeff ti è antipatico, Auster, ma questo è assurdo. Se sospetti di lui, puoi sospettare di tutti noi!»
«È solo sfortuna», disse Kennard. «Nient'altro, solo sfortuna.»
Auster ribatté con ira: «Se fosse successo una volta, avrei detto anch'io che era una coincidenza; se fosse successo due, coincidenza e sfortuna. Ma tre volte? Tre? È una coincidenza, se la levatrice deve correre in tutte le case del paese nove mesi dopo che è soffiato un Vento Fantasma?»
Elorie aggrottò la fronte. Disse: «Basta, basta! Non voglio sentir gridare così. C'è un solo modo per risolvere la questione, Kennard. Tu sei un Alton. A te non può mentire, Zio».
Kerwin capì immediatamente che cosa volesse dire, ancor prima che si voltasse verso di lui e che gli chiedesse: «Accettate di sottoporvi a un esame telepatico, Jeff?»
Jeff si sentì prendere dalla rabbia. «Se acconsento? Io esigo quell'esame», disse. «E poi, maledizione, ti farò rimangiare le tue parole, Auster, te le caccerò in gola a suon di pugni!» Si girò verso Kennard; era talmente incollerito da non avere alcun timore del doloroso esame mentale. «Avanti, scopri tutto quello che vuoi!»
Kennard aveva ancora qualche esitazione. «Non penso che ci sia veramente bisogno...»
«No, è l'unico modo», disse seccamente Neyrissa. «E Jeff è d'accordo.»
Kerwin chiuse gli occhi, preparandosi allo shock del rapporto forzato. Per quanto lo facesse, non diventava mai più facile. Sopportò per un momento l'incredibile intrusione, prima di perdere i sensi. Quando li riacquistò, si teneva al tavolo per non cadere, e respirava pesantemente.
Kennard continuava a passare lo sguardo da lui ad Auster.
«Allora?» chiese Jeff, incollerito e preoccupato.
«Ho sempre sostenuto che potevamo fidarci di te, Jeff», disse Kennard, parlando lentamente, «ma c'è qualcosa nella tua memoria. Una specie di blocco che non riesco a capire.»
Auster chiese: «Pensi che i terrestri possano avergli dato una specie di condizionamento postipnotico? Che l'abbiano messo tra noi come una specie di bomba a orologeria?»
«Ti assicuro che sopravvaluti la loro conoscenza della mente», disse Kennard. «E ti assicuro, Auster, che Jeff non ha dato loro alcuna informazione. Nella mente non gli ho letto sensi di colpa.»
Ma Jeff si era sentito stringere alla gola da una mano di gelo.
Fin dal suo arrivo su Darkover, si era sentito spingere qua e là da forze misteriose. Non erano stati certamente i Comyn a distruggere nei computer terrestri la documentazione della sua nascita e quella di Jeff Kerwin senior,che lo aveva riconosciuto e gli aveva dato la cittadinanza imperiale. Non erano stati i Comyn a metterlo con le spalle al muro finché non aveva avuto altra soluzione che fuggire; e rifugiarsi tra i Comyn.
Che l'avessero messo come spia, a sua insaputa, nella Torre di Arilinn?
«Non ho mai sentito niente di così assurdo», diceva intanto Kennard, con ira. «È come accusare te, Auster, o la stessa Elorie! Ma se tra noi c'è questo genere di sospetti, gli unici che possono avvantaggiarsene sono i terrestri!» Raccolse la carta geografica. «È più probabile che siano stati gli Aldaran. Laggiù hanno diversi telepatici, e lavorano con matrici non registrate, all'esterno dei relè delle Torri. Forse le tue barriere hanno ceduto per qualche momento, Auster, nient'altro. Diciamo che è stata sfortuna e riproviamo.»
CAPITOLO 12
LA TRAPPOLA
Jeff cercò di allontanare dalla mente quell'idea. Dopotutto, Kennard aveva garantito, con un esame telepatico, che lui non aveva colpa. Questa, legalmente, era un'assoluzione in base a qualsiasi codice. Ma, una volta nata, l'idea non si allontanava più, come un dolore di denti.
Lo saprei, se i terrestri mi avessero messo qui come spia? Ero talmente lieto di essermi liberato della Zona Terrestre che non mi sono più fatto domande. Per esempio, perché nei computer dell'orfanotrofio non c'erano documenti che mi riguardassero? Mi hanno detto che anche Auster è stato per un certo periodo tra i terrestri. Mi chiedo se laggiù abbiano una documentazione su di lui. Non c'è niente che impedisca a un buon tecnico delle matrici, come aveva suggerito anche Ragan, di cancellare dalla memoria di un computer una certa registrazione. Da quel che conosceva sui computer e sulle matrici, sarebbe riuscito a farlo lui stesso.
Rimaneva in silenzio per tutto il giorno, si sdraiava sul letto e cercava di non pensare a niente, oppure andava a cavalcare da solo nelle colline. Sentiva su di sé gli occhi di Taniquel, tutte le volte che era con gli altri, e sentiva il suo dolore per lui (maledetta sgualdrina, non voglio la sua pietà). La evitava per quanto poteva, ma i ricordi del periodo dei loro amori tagliavano come un coltello. Poiché aveva provato un sentimento assai più profondo che con le altre donne da lui conosciute, non poteva liberarsi facilmente di quei ricordi; rimanevano con lui, e gli facevano male.
Aveva notato che Taniquel cercava di parlargli da sola, e perciò, con una sorta di piacere perverso, la evitava ogni volta. Una mattina, però, la incontrò sulle scale.
«Jeff», disse lei, tendendogli la mano. «Non fuggire... per favore, non continuare a sfuggirmi. Voglio parlarti.»
Lui si strinse nelle spalle e, invece di guardarla in viso, fissò un punto al di sopra della sua testa. «Che cosa c'è da dire?»
Con gli occhi pieni di lacrime, Taniquel disse singhiozzando: «Non lo sopporto. Ostilità tra noi due, e la torre piena di odio e di sospetto! E di gelosia...»
Kerwin rispose, colpito dal suo dolore: «Non piace neppure a me, Taniquel. Ma non sono stato io, se ricordi bene».
«Perché devi sempre...» Ma s'interruppe, mordendosi il labbro. Poi riprese: «Mi dispiace vederti così triste, Jeff. Kennard mi ha fatto capire, un poco, quello che hai pensato, e mi dispiace, non capivo...»
Kerwin rispose, cercando di ferirla con l'ironia: «Se fossi abbastanza infelice, ritorneresti da me?» La prese per le spalle, con forza. «Penso che Auster ti abbia convinto a pensare male di me, che sono una spia dei terrestri o qualcosa del genere.»
Lei non cercò di liberarsi dalla sua stretta. Rispose: «Auster non dice una bugia, Jeff. Dice solo quello che crede. E se pensi che la cosa gli faccia piacere, ti sbagli.»
«Suppongo che gli si spezzerebbe il cuore, se riuscisse a cacciarmi via.»
«Non lo so», disse Taniquel, «ma non ti odia come tu credi. Guardami, Jeff, non capisci che ti dico la verità?»
«Oh, non dubito che tu conosca perfettamente quello che pensa Auster», disse, ma si accorse che Taniquel tremava, e chissà perché, la vista di Taniquel, la sbarazzina, in lacrime gli fece ancor più male che i sospetti degli altri. Quello era il guaio, pensò. Se Auster avesse mentito per cattiveria, se Taniquel lo avesse lasciato per Auster perché voleva farlo ingelosire, almeno Kerwin avrebbe capito quel tipo di motivazione. Invece, così com'era, per lui risultava un completo mistero. Taniquel non attaccava e non si difendeva, neppure nel segreto dei propri pensieri; semplicemente, si limitava a condividere il suo dolore. Si gettò su di lui, singhiozzando, e lo strinse disperatamente.
«Oh, Jeff, eravamo così felici quando sèi arrivato, e per noi era così importante averti nel nostro gruppo, ma ora si è rovinato tutto! Oh, se soltanto potessimo essere sicuri!»
Quella sera, nella sala, Kerwin li affrontò tutti. Attese che si fossero riuniti per bere un bicchiere di liquore, come facevano tutte le sere, e poi si alzò con fare aggressivo, con le mani nascoste dietro la schiena. In segno di sfida aveva indossato i suoi abiti terrestri; come ulteriore sfida parlò in cahuenga.
«Auster, tu mi hai accusato; io mi sono sottoposto all'esame telepatico, e questo avrebbe dovuto mettere fine alla cosa, ma tu non hai voluto accettare né la mia parola né quella di Kennard. Che prova vuoi ancora? Quale ti potrebbe lasciare soddisfatto?»
Auster si alzò in piedi, con la grazia di un gatto; disse: «Che cosa vuoi da me, Kerwin? Non posso accettare una sfida, per non infrangere la tregua dei Comyn...»
«Che l'immunità dei Comyn vada a...» Kerwin usò un'espressione dei bassifondi attorno alla spazioporto. «Ho passato dieci anni sulla Terra, e laggiù, dicono "o parla, o sta' zitto". Dimmi subito quale prova possa andare bene per te, e dammi la possibilità di sottopormi a essa con tua piena soddisfazione. Oppure, non tirare mai più in ballo l'argomento, né ora né mai, e credimi, fratello, se sento anche solo una sillaba, o se raccolgo anche una sola insinuazione telepatica, ti spacco la faccia!» Continuò a fissarlo, stringendo i pugni, e quando Auster si spostò da una parte, anche Jeff lo imitò, per non lasciarlo passare. «Te lo ripeto. Parla, oppure sta' zitto per sempre.»
Nella sala scese il silenzio: Jeff lo notò con soddisfazione. Mesyr scosse la testa, come per dire: «Via, ragazzi...»
«Jeff ha ragione», intervenne Rannirl. «Non puoi continuare in eterno, Auster. Dimostra quello che dici, oppure scusati con Jeff e poi non parlarne più. Non solo per fare un favore a Jeff, ma per tutti noi, perché è il minimo che tu possa fare. Non possiamo continuare in questo modo; siamo un Cerchio. Non dico che dobbiate farvi il giuramento dei fratelli di spada, ma in qualche modo dovete cercare di procedere in armonia. Non possiamo vivere così, divisi in due fazioni, con ciascuno dei gruppi che mostra i denti all'altro. Elorie ha già abbastanza problemi.»
Auster fissò Kerwin. Se gli sguardi potessero uccidere,pensò Kerwin, io sarei già morto. Ma quando Auster prese la parola, parlò con calma, in tono ragionevole. «Hai ragione», disse a Rannirl. «Per rispetto verso di voi, dobbiamo scoprire la verità una volta per tutte. E anche Jeff ha promesso di accettare l'esito. Elorie, puoi costruire una matrice-trappola?»
«Posso costruirla», esclamò lei, con ira. «Ma non voglio! Fattelo tu, il tuo lavoro sporco!»
«Può costruirla Kennard», intervenne Neyrissa, e Auster aggrottò la fronte.
«Sì», disse, «ma è prevenuto... in favore di Jeff. Qui gli sta facendo da padre adottivo!»
Kennard intervenne per dire a bassa voce, minacciosamente: «Se osi pensare che io, che ero già meccanico delle matrici ad Arilinn prima dei Cambiamenti, possa mancare al mio giuramento...»
Rannirl alzò una mano per fermarli tutt'e due. «La costruirò io», disse. «Non perché sia dalla tua parte, Auster, ma perché occorre risolvere questa faccenda in un modo o nell'altro. Jeff...» si voltò verso Kerwin, «...vi fidate di me?»
Kerwin annuì. Non sapeva che cosa fosse una matrice-trappola, ma se a occuparsene era Rannirl, era certo che la trappola non sarebbe scattata per lui.
«Va bene, allora», concluse Rannirl. «Siamo d'accordo. Perciò, finché non avremo pronta la matrice per il prossimo Cerchio, voi due non potete dichiarare una tregua?»
Jeff stava per dire al diavolo la tregua,e vide, lanciando un'occhiata alla faccia cupa di Auster, che neanche l'altro ne aveva l'intenzione. Come si poteva fingere, tra telepatici? Ma Taniquel stava di nuovo per piangere, e Jeff, all'improvviso, alzò le spalle. Diavolo, poteva permettersi di essere magnanimo; Auster voleva soltanto sapere la verità, e su questo potevano essere d'accordo. Con un'alzata di spalle, disse: «Io non gli darò fastidio, se lui non darà fastidio a me».
Auster si rilassò leggermente. Disse: «D'accordo, allora».
Presa la decisione, la tensione si allentò e la fase successiva del lavoro ebbe inizio in un'atmosfera che, al confronto, era perfino amichevole. Questa volta dovevano costruire una matrice per il lavoro di raffinazione, che non era più stato fatto, su quella scala, dai grandi giorni dei Comyn, quando in tutti i Regni sorgevano Torri che davano forza e tecnologia a tutto Darkover.
Avevano trovato i giacimenti di minerali e li avevano messi in ordine di ricchezza e di accessibilità. Il passo successivo consisteva nel separare i metalli dalle impurità che li accompagnavano, in modo da averli a disposizione già raffinati. Atomo per atomo, nel profondo della terra, grazie a piccoli spostamenti di forze, gli elementi cercati si dovevano staccare dai composti. Corus trascorse altro tempo con i suoi modellini molecolari, cercando di ottenere le proporzioni e i pesi corretti. Nello stesso tempo, Elorie, con l'assistenza di Rannirl, chiese l'aiuto di Kerwin per collocare i cristalli nel giusto punto del reticolo. Doveva visualizzare su un altro schermo alcuni complessi schemi molecolari, in modo che Elorie e Rannirl potessero collocare nel modo giusto, all'interno degli strati di vetro, le piccole gemme matrice. Kerwin imparò alcune cose, sulla struttura atomica, che sulla Terra non gli avevano mai insegnato... per esempio, i suoi insegnanti di fisica non gli avevano mai parlato degli energoni,le particelle psicocinetiche. Era un lavoro noioso, monotono e tedioso, anche se non stancava fisicamente, e anche mentre lo svolgeva, Kerwin continuò a pensare al test che lo attendeva, una volta pronta la matrice-trappola, qualunque cosa fosse.
Ma voglio sapere la verita, qualunque essa sia.
Davvero, qualunque sia?
Sì. Qualunque sia.
Un giorno lavoravano nei laboratori delle matrici, e Jeff continuava a visualizzare sullo schermo la complessa struttura cristallina interna di un certo minerale, quando vide che il vetro del nuovo reticolo cominciava a tremolare e a diventare opaco. Percepì una sensazione di dolore e, senza sapere che cosa facesse esattamente, agì per puro istinto. Interruppe subito il rapporto tra Rannirl ed Elorie, cancellò dal suo schermo la visualizzazione e si alzò per sorreggere Elorie, che aveva perso i sensi. Per un attimo temette che la ragazza non respirasse più; poi lei batté gli occhi e trasse un sospiro.
«Lavora troppo, come al solito», commentò Rannirl, fissando lo schermo in costruzione. «Vuole sempre continuare, anche quando io la supplico di prendersi un po' di riposo. Avete fatto bene a interrompere il rapporto, Jeff, nel momento cruciale, altrimenti avremmo dovuto ricostruire l'intero reticolo, e avremmo perso dieci giorni. Allora, Elorie?»
Elorie piangeva senza parole, per la fatica, e si era afflosciata tra le braccia di Jeff. Era mortalmente pallida e singhiozzava piano, come se non avesse neppure la forza di respirare. Rannirl la prese dalle braccia di Jeff, la sollevò come se fosse una bambina piccola e la portò in un'altra stanza. Poi disse a Kerwin, senza girare la testa: «Chiamate Taniquel, in fretta».
«Taniquel è partita con Kennard sull'aereo», gli ricordò lui.
«Allora, vado a chiamarli con i relè», disse il tecnico, spalancando la porta, con un calcio. Era una delle stanze che non venivano usate; sembrava che nessuno vi avesse messo piede da anni. Posò la ragazza su un sofà coperto da un lenzuolo polveroso, mentre Kerwin lo guardava dalla porta, senza sapere come aiutarlo. «Posso fare qualcosa?» chiese.
«Siete un empatico, e avete ricevuto l'addestramento del controllore; io non lo faccio da anni. Vado a cercare Neyrissa, ma voi controllate le sue condizioni e guardate se il cuore è a posto.»
A Kerwin ritornò in mente quel che Taniquel aveva fatto per lui, la prima sera dei test a cui era stato sottoposto: aveva preso su di sé il suo dolore, quando lui aveva perso i sensi a causa della rottura delle sue barriere.
«Farò tutto il possibile», rispose, avvicinandosi alla ragazza.
Elorie muoveva la testa da una parte all'altra, come un bambino ostinato. «No», disse, con irritazione. «No, lasciatemi, sto bene.» Ma per dirlo dovette prendere due volte il fiato; Kerwin vide che era ancora pallida come un cencio.
«Fa sempre così», disse Rannirl, scuotendo la testa. «Fate quello che potete, Jeff, mentre io vado a cercare Neyrissa.»
Jeff si chinò su Elorie.
«Non credo di essere capace come Taniquel o Neyrissa», disse, «ma farò quel che potrò.»
In fretta, aumentando la propria sensibilità, fece correre le dita lungo il corpo di Elorie, a un paio di centimetri di distanza, e sentì in profondità nelle sue cellule. Il cuore batteva, ma in modo debole e irregolare, esile come un filo; il polso era debole e quasi impercettibile. Il respiro era così flebile che non riusciva quasi a sentirlo. Cautamente, entrò in rapporto con lei e cercò la sua debolezza, cercando di prenderla su di sé come aveva fatto Taniquel con lui. La ragazza si agitò e si mosse debolmente, per afferrargli le mani; Kerwin ricordò come Taniquel gli aveva preso le mani per intensificare il rapporto. Elorie non trovò le sue mani, e Jeff gliele prese, e sentì che Elorie cercava di stringere le dita sul suo polso. Era quasi priva di conoscenza. Ma gradualmente, mentre continuava a tenerla per le mani, Jeff sentì che il suo respiro ritornava regolare, che il cuore riprendeva a battere e che il pallore cominciava a scomparirle dal volto. Solo quando la sentì respirare con calma, Kerwin capì quanto si fosse spaventato; poi, finalmente, Elorie aprì gli occhi e lo guardò. Aveva ancora le labbra esangui.
«Grazie, Jeff», disse, con un filo di voce, e gli strinse le mani; poi, con stupore di Jeff, fece per abbracciarlo. Jeff la strinse a sé, perché sentiva che voleva essere rassicurata da quel contatto; la tenne per un momento, e sentì il suo corpo ancora debole e senza forza. Poi, senza vera sorpresa, Kerwin sentì lo squisito confondersi delle loro percezioni quando le loro labbra si incontrarono.
Con una doppia coscienza, enormemente ampliata, sentì la fragilità di Elorie e la sua volontà di ferro, la sua sensibilità ancora da bambina mescolata con la saggezza sicura, senza età, della sua casta e del suo addestramento. (E confusamente, tra tutte queste cose, sentì quello che Elorie provava: la sua debolezza e la sua incapacità di difendersi, il terrore che aveva provato quando il suo cuore aveva perso un battito e lei si era trovata vicino alla morte, il bisogno della rassicurazione del contatto, la forza delle sue braccia che la stringevano; sentì la solitudine e a l'ansia con cui aveva accettato il suo bacio, lo strano risveglio dei suoi sensi, ancora tutto da capire; condivise con lei la sua meraviglia e la sua sorpresa al contatto, la prima volta che aveva baciato in un modo non impersonale; condivise la sua sorpresa, timida ma senza successivi pentimenti, per la forza delle sue braccia maschili, per il calore che sentiva sorgere dentro di lui; sentì che anche Elorie tendeva la mente verso di lui, in modo inconfondibile, per un contatto più profondo, e rispose...)
«Elorie», mormorò Jeff. Ma era come un grido di trionfo. «Oh, Elorie...» E aggiunse, solo a se stesso: amore,e per un momento sentì che la ragazza si tendeva completamente verso di lui, sentì il suo calore e il suo desiderio di un bacio...
Poi, in un istante spasmodico, di terrore, che afferrò tra i suoi artigli ogni nervo di Jeff, il rapporto tra loro si spezzò come un cristallo colpito da una pietra, ed Elorie, bianca e atterrita, si staccò da lui, divincolandosi come un gatto tra le sue braccia.
«No, no», disse, ansimando. «Jeff, lasciami andare...»
Stupito, senza capire, Kerwin la lasciò, ed Elorie si alzò in fretta e si allontanò da lui, con le mani incrociate sul petto, che si alzava e si abbassava nei singhiozzi. Aveva gli occhi pieni di orrore e aveva di nuovo eretto la barriera mentale. Mosse silenziosamente le labbra e fece una smorfia per non piangere.
«No», mormorò di nuovo, dopo qualche istante. «Hai dimenticato quello che sono? Oh, che Avarra abbia pietà di me», disse in un ultimo singhiozzo, si coprì con le mani la faccia e fuggì ciecamente dalla stanza, rischiando di inciampare in uno sgabello, scansandosi meccanicamente da Jeff che cercava di aiutarla, e allontanandosi per il corridoio, di corsa. Poi, lontano, dall'alto della Torre, giunse il rumore di una porta che si chiudeva.
Nei successivi tre giorni, non rivide Elorie.
Per la prima volta, quella sera, non si unì a loro per il tradizionale brindisi nella grande sala. Jeff, a partire dal momento in cui la ragazza era corsa via da lui, si sentiva isolato e solo, si sentiva di nuovo un estraneo in un mondo diventato improvvisamente gelido.
Gli altri parevano prendere l'isolamento di Elorie come se fosse qualcosa di normale; Kennard disse che lo facevano tutte le Guardiane, di tanto in tanto, e che rientrava nella loro natura. Jeff, tenendo strettamente serrate le barriere mentali per evitare di tradirsi (di tradire Elorie?) non fece parola dell'accaduto. Ma gli occhi di Elorie, grandi e disperati, pieni di improvviso terrore, oltre al ricordo del suo calore tra le sue braccia, tornarono a presentarsi all'occhio della sua mente ogni sera, prima che prendesse sonno; ricordò il suo bacio, il suo corpo fragile tra le sue braccia, lo stupore da lui provato quando la ragazza era fuggita. Prima si era detto, leggermente incollerito: era stata lei a incominciare. Perché poi era fuggita terrorizzata, come se lui avesse cercato di usarle violenza?
Poi, lentamente e dolorosamente, cominciò a capire.
Aveva infranto la più rigorosa legge dei Comyn. Una Guardiana faceva il voto di verginità, si addestrava a lungo per il suo lavoro, condizionava corpo e cervello per il più difficile lavoro che esistesse su Darkover. Per ogni uomo dei Regni, Elorie era inviolabile. Una Guardiana, tenerésteis,da non toccarsi né per passione né per amore.
Jeff sapeva quel che provavano per Cleindori, che aveva infranto quel voto. (Anche lei con uno degli odiati terrestri.)
Un tempo, Kerwin avrebbe potuto difendersi dicendo che era stata la stessa Elorie a incoraggiarlo. Gli aveva preso le mani e aveva sollevato le labbra verso le sue. Ma dopo un periodo di addestramento ad Arilinn, dove gli era stata insegnata l'onestà verso se stesso, non poteva sfuggire così facilmente alle sue responsabilità. Conosceva il tabù, conosceva l'ingenuità di Elorie, sapeva che il suo modo immediato di mostrare affetto per i membri del Cerchio si basava sulla fiducia che nessuno avrebbe infranto il tabù: per tutti gli altri, lei non aveva sesso, era sacrosanta. Elorie aveva accettato Jeff allo stesso modo... e lui aveva approfittato della sua fiducia!
Lui l'amava. Ora sapeva di averla amata fin dal primo momento in cui l'aveva vista; o forse ancor prima, quando le loro menti si erano incontrate attraverso la matrice e aveva sentito il suo Ti riconosco. Ora non vedeva altro, davanti a sé, che dolore e rinuncia.
Taniquel... la sua infatuazione per Taniquel adesso sembrava un sogno. Sapeva adesso che era gratitudine per averlo accettato, per la sua gentilezza e il suo calore. Era ancora affezionato a lei, ma quel che c'era stato, per un certo tempo, tra loro non poteva sopravvivere a un'interruzione del legame sessuale che li univa. Non era mai stato come l'emozione da lui provata con Elorie: un'emozione soverchiante che inghiottiva tutta la sua coscienza; sapeva che avrebbe amato Elorie per tutta la vita, anche se non avesse mai più potuto toccarla e lei non avesse mai dato segno di condividere il suo amore.
(Ma gliene aveva dato segno, invece!)
E ancor peggiore di questo c'era un timore che gli rodeva la coscienza. Kennard lo aveva avvertito del rischio di un esaurimento nervoso e gli aveva consigliato di staccarsi da Taniquel nei giorni che precedevano un importante lavoro con le matrici, per non consumare le energie. Le Guardiane, sapeva, si mettevano completamente in fase, mente e corpo, con le matrici che usavano; per questo non dovevano mai essere sfiorate dalle emozioni, e ancora meno da quelle di natura sessuale. Ripensò alla prima sera da lui trascorsa ad Arilinn; la costernazione di Elorie davanti al suo semplice complimento, la sua osservazione che le Guardiane si preparavano per tutta la vita per il loro lavoro e a volte perdevano improvvisamente la capacità di farlo. Neyrissa gli aveva detto che non esistevano altre Guardiane, e che perciò Elorie, diversamente dalle Guardiane del passato, non era libera di lasciare il suo posto per il matrimonio... o per l'amore.
E adesso che il destino di Darkover era affidato alla Torre di Arilinn — e forse alla sola Elorie, dato che la forza di Arilinn era affidata alla stabilità della sua riverita Guardiana — lui, Jeff Kerwin, lo straniero del gruppo, l'estraneo che avevano portato tra loro, li aveva traditi e aveva abbattuto le difese della loro Guardiana.
Arrivato a quel punto dei suoi pensieri, Kerwin si rizzò a sedere e si nascose la testa tra le mani. Cercò di cancellare del tutto i propri pensieri. Questo era peggio delle accuse di Auster di essere una spia, di trasmettere informazioni all'Impero Terrestre.
Solo, nella notte, lottò per giungere alla fine di quella difficile battaglia. Amava Elorie; ma il suo amore per lei poteva distruggerla come Guardiana. E senza una Guardiana, non sarebbero riusciti a svolgere il lavoro di cui li aveva incaricati il Comitato, che così avrebbe fatto venire i terrestri, esperti nel trasformare Darkover in un'ennesima copia della Terra.
Una parte di lui chiese: E sarebbe così grave? Presto o tardi, anche Darkover si sarebbe allineato con gli altri. Tutti i pianeti lo facevano, prima o poi.
E anche per Elorie, si disse, sarebbe stato meglio! Nessuna giovane donna avrebbe dovuto vivere così, reclusa, evitando tutte le cose che rendevano la vita degna di essere vissuta. Nessuna donna doveva pensare che il suo corpo fosse solo una macchina per trasformare energie nel lavoro delle matrici! Lo stesso Rannirl si era ribellato a quell'idea, e Rannirl era il principale tecnico di Arilinn. Rannirl aveva detto che le Guardiane come Elorie erano un anacronismo, nella loro epoca. Se per far sopravvivere la Torre di Arilinn e la tecnologia delle matrici era necessario sacrificare la vita di giovani donne come Elorie, forse non meritavano affatto di sopravvivere. Se non fossero riusciti a fare il lavoro per il Comitato, Elorie non avrebbe più avuto bisogno di essere Guardiana, e sarebbe stata libera.
Traditore, si accusò amaramente. La gente di Arilinn aveva preso lui, uno straniero senza casa, un esiliato di due mondi, e l'aveva accettato come uno di loro, gli aveva dato affetto e riconoscimento. E adesso lui era pronto a colpirli nel loro punto debole, era disposto a distruggerli.
Nella sua stanza, quella notte, decise di rinunciare a Elorie. Era lei la persona che importava; e la sua scelta era quella di essere Guardiana e di rimanerlo. A costo di qualsiasi rinuncia e di qualsiasi tormento, non si doveva più disturbare la pace della sua mente.
La mattina del quarto giorno sentì giungere dalle scale la voce di Elorie. Jeff si era convinto a rinunciare a lei, ma al suono della sua voce sentì il desiderio di raggiungerla; perciò si gettò sul letto e si impose la calma, nonostante il dolore e il desiderio di ribellione. Oh, Elorie... Non aveva ancora il coraggio di affrontarla.
Più tardi, Rannirl venne a chiamarlo.
«Jeff? Non scendete?»
«Ancora un minuto», disse Jeff, e Rannirl si allontanò. Rimasto solo, Kerwin cercò di applicare tutte le tecniche di controllo che aveva imparato, regolarizzando il respiro, costringendosi a rilassarsi; e quando gli parve di poterli affrontare tutti senza rivelare il suo dolore e il suo senso di colpa, si recò nella sala di riunione.
L'intero Cerchio di Arilinn era riunito davanti al fuoco, ma Kerwin aveva occhi soltanto per Elorie. Aveva indossato nuovamente la veste leggera, con le ciliegie ricamate, fermata alla gola da un singolo cristallo; i suoi capelli color rame erano raccolti sulla testa, in un'elaborata pettinatura a trecce, fermate da un fiore azzurro con spolverature d'oro: il fiore del kireseth,chiamato colloquialmente la campana d'oro... cleindori. Che volesse mettere alla prova il suo controllo? si chiese Jeff. O il proprio?
Poi Elorie alzò gli occhi... e Jeff poté tornare a respirare. Perché sorrideva con gentilezza, ma con distacco, indifferente.
Non ha provato nulla, allora. Che mi sia immaginato tutto? Che la sua reazione fosse stata soprattutto di paura, come se lui avesse ridestato i suoi vecchi timori? Si rammentò della storia raccontata da Neyrissa: uno dei compagni di bisbocce di suo padre aveva cercato di metterle le mani addosso, e il fratello l'aveva portata alla Torre perché fosse al sicuro.
Kennard gli posò la mano sulla spalla, gentilmente; in qualche modo, con quel contatto, un pensiero passò da lui a Jeff: Le Guardiane sono addestrate, in modi che non riusciresti a immaginare, per liberarsi dalle emozioni. In qualche modo, in quei tre giorni di isolamento, Elorie era riuscita a ritornare alla sua calma distaccata, alla sua consueta serenità. Il suo sorriso era quasi uguale a quello di sempre. Quasi. Kerwin sentì che era fragile, guardingo, una sottile patina di controllo sopra il panico; e con dolore e compassione pensò: Non devo fare niente, niente che rischi di preoccuparla. Lei vuole così. Non devo disturbarla nemmeno con un pensiero.
Elorie disse tranquillamente: «Abbiamo fissato per questa sera le operazioni di raffinazione; e Rannirl mi informa che la matrice-trappola è pronta, Auster».
«Io sono pronto», disse Auster. «A meno che Jeff non voglia tirarsi indietro.»
«Ho detto che avrei accettato qualsiasi prova», rispose Jeff. E aggiunse: «Ma che diavolo è una matrice-trappola?»
Elorie fece uno dei suoi sorrisi infantili. «È un'oscena perversione di un'onesta scienza», disse.
«Non necessariamente», obiettò Kennard. «Anche se le accusano di andare contro il Patto di Varzil sulle armi che colpiscono a distanza, ce ne sono di validissime. Il Velo all'ingresso di Arilinn è un tipo di matrice-trappola; tiene lontano chiunque non abbia sangue Comyn. E nel rhu fead,il luogo sacro dei Comyn, ce ne sono altre. Di che tipo è la tua, Auster?»
«È una trappola sulla barriera», spiegò Auster. «Quando metterò la barriera di gruppo attorno al nostro cerchio, sistemerò la matrice-trappola in sincronismo con la barriera stessa. A quel punto, se qualcuno è in contatto mentale con una persona del Cerchio, lo terrà fermo e lo immobilizzerà, e noi potremo vederlo su uno degli schermi di controllo.»
«Credetemi», disse Kerwin, «se c'è qualcuno che spia nella mia mente, anch'io sono ansioso di trovarlo!»
«Allora, possiamo cominciare», disse Elorie. Tuttavia, si morse le labbra, esitante, e si avvicinò all'armadietto dove venivano tenuti i liquori. «Ho bisogno di un bicchiere di kirian.»E poiché Kennard la guardava con disapprovazione, alzò le spalle, gli passò davanti e se lo servì da sola. «Qualcun altro non è sicuro di sé, questa notte? Auster? Jeff? Non guardarmi in quella maniera, Neyrissa. So quello che faccio, e non sei mia madre!»
Rannirl disse con serietà: «Elorie, se non ti senti pronta per le operazioni di raffinazione, possiamo rimandarle di qualche giorno».
«Abbiamo già perso tre giorni, e io sono a posto», rispose lei, portandosi il bicchiere alle labbra. Ma lanciò un'occhiata a Jeff, in un momento in cui credeva di non essere vista, e lui rimase dolorosamente colpito dalla sua espressione.
Così, anche per lei era doloroso. Kerwin aveva provato un grande dolore, nel vedere che lei era disposta a rinunciare a tutto, che era pronta a ignorare e dimenticare quel che c'era stato tra loro. Adesso, scorgendo la tristezza nei suoi occhi, Kerwin si augurò che Elorie potesse passare senza soffrire attraverso quell'esperienza. Lui poteva sopportare il dolore, se era necessario. Ma non sapeva se sarebbe riuscito a sopportare il dolore di Elorie.
Eppure, sarebbe riuscito a sopportarlo, perché era il suo dovere. La guardò mentre finiva il liquore di kirian e accompagnò gli altri nella camera delle matrici.
Presero i posti abituali, con Taniquel allo schermo del controllore, Neyrissa nel cerchio, Auster a occuparsi della barriera di gruppo, Elorie al centro, a controllare con le sue mani affusolate le forze che potevano attingere alle correnti magnetiche del pianeta, raccogliere il potere mentale dei componenti del cerchio e indirizzarlo verso il reticolo di matrici costruito per quel lavoro.
Kerwin sopportò l'attesa come un tormento, facendosi forza per controllarsi nel momento in cui gli occhi grigi di Elorie si sarebbero rivolti verso di lui e lo avrebbero messo in rapporto con il resto del cerchio. Sentì che questo prendeva forma attorno a lui: Auster forte e protettivo; la forza intangibile di Kennard, così diversa dal suo corpo dolorante; Neyrissa, gentile e distaccata; Corus simile a una valanga di immagini in movimento.
Ed Elorie.
Sentì la forte presenza di Elorie guidarlo senza esitazione fra gli strati del reticolo di matrici che in qualche modo era anche associato alla carta geografica posata davanti a Kerwin, e attraverso di questa al territorio stesso dei Regni: la sua coscienza si allargò al di sopra del tempo e dello spazio, penetrò profondamente nel cuore del mondo...
Ne uscì alcune ore più tardi, e nel riprendere lentamente la conoscenza vide nella Torre le prime luci dell'alba e attorno a lui la faccia dei membri del Cerchio. E Auster, tirato, ostile, trionfante: senza parlare, il giovane chiamò gli altri attorno a sé.
Kerwin non aveva mai visto una matrice-trappola. Era grande come un normale quaderno di scuola, e sembrava un sottile foglio di vetro opaco e lucido, con inseriti qua e là minuscoli frammenti di gemma matrice; sulla superficie lucida si rincorrevano strisce di luce fosforescente. Auster disse: «Sei stanca, Taniquel? Corus, portami lo schermo di controllo, per favore; vediamo che cosa abbiamo qui dentro». Indicò le luci che si rincorrevano sulla matrice-trappola, belle e minacciose. «L'ho regolata su chiunque cercasse di superare la barriera di gruppo, e l'ho sentita scattare. Chiunque fosse, adesso è immobilizzato all'interno della matrice e possiamo dargli una buona occhiata.»
Con una smorfia, come se dovesse compiere un lavoro odioso, Corus si avvicinò alla matrice-trappola, portando con sé il piccolo schermo di cui si serviva il controllore del gruppo. Spostò un piccolo calibro posto sulla sua superficie, e sullo schermo comparve un'immagine, che dopo qualche momento si mise a fuoco. Una vista della città di Arilinn, a volo di uccello; uno dopo l'altro, si poterono riconoscere alcuni punti caratteristici, costruzioni, piazze. Poi il movimento dell'immagine rallentò e si fermò all'interno di una stanzetta spoglia, dove si scorgeva soltanto un uomo con la testa china come se si concentrasse profondamente; un uomo immobile come se fosse morto.
«Chiunque sia, adesso è sotto un campo di stasi», spiegò Arilinn. «Puoi mostrarci la sua faccia, Corus?»
L'immagine si mosse, e Jeff, nel riconoscere l'uomo, si lasciò sfuggire un grido.
«Ragan!»
Naturalmente. L'uomo triste e amareggiato dei bar dello spazioporto, che aveva virtualmente ammesso di essere una spia dei terrestri, che aveva pedinato Jeff per settimane, gli aveva insegnato a usare una matrice e lo aveva indirizzato quasi passo per passo.
Ora che ci pensava, non poteva essere che Ragan.
Subito scese su di lui una calma glaciale, grande, rabbiosa. Qualche suo retaggio sconosciuto, una cosa totalmente darkovana, gli scrollò di dosso ogni altra considerazione, tranne la collera e l'offesa recata al suo orgoglio nel manipolarlo così, nello scassinargli la mente. Senza dover riflettere, gli tornarono in mente antiche parole.
«Com'ii, la vita di quest'uomo e mia! Quando, dove e come potrò, voglio la sua vita, uomo contro uomo, e chi gliela toglierà dovrà risponderne a me!»
Auster — che, come Kerwin sapeva, era pronto a scagliare nuove accuse e nuove sfide — s'immobilizzò, sgranando gli occhi, meravigliato.
Kennard fissò negli occhi Jeff. Disse: «Comyn Kerwin-Aillard, come tuo parente più prossimo e tuo custode presso Arilinn, ascolto la tua richiesta e ti assegno quella vita, da togliere o da risparmiare a tua scelta. Cercala, prendila, o da' la tua».
Jeff sentì le parole della risposta tradizionale, ma non le ascoltò. L'intera sua mente era dominata da un solo pensiero: fare a pezzi Ragan. Disse seccamente, indicando l'immagine sullo schermo: «Quella matrice può trattenerlo finché non l'avrò raggiunto, Auster?»
Il giovane annuì, e si chinò a raccogliere la matrice-trappola. Nel silenzio che era sceso dopo la domanda di Kerwin, si levò la voce di Taniquel.
«Non potete permetterglielo!» disse, con la voce rotta. «Jeff non sa da che parte si cominci a usare una spada, e vi pare che quello sharug,quel figlio di un uomo-gatto, sia capace di combattere lealmente?»
«Non sarò capace di usare una spada», rispose Jeff, a denti stretti, «ma me la sono sempre cavata bene con il coltello. Cugino», disse, rivolto a Kennard, che gli aveva rivolto un cenno d'assenso, «procurami un pugnale, e ti porterò la vita di quell'uomo.»
Ma fu Rannirl a sfilarsi dalla cintura il coltello che portava al fianco. Disse lentamente: «Fratello, sono con te. I tuoi nemici sono i miei; che tra noi non sia mai estratto un coltello.» Poi gli porse il coltello, dalla parte dell'impugnatura. Kerwin lo accettò, in preda a un vago stupore; da chissà quale parte della memoria, gli ritornò in mente che era il giuramento dei fratelli di spada e che su Darkover quelle parole avevano un significato molto profondo. Non conosceva la risposta tradizionale, ma ricordò che lo scambio dei coltelli aveva il valore di un giuramento di fratellanza, e anche nella sua collera si sentì commosso da quella manifestazione di affetto. Abbracciò Rannirl e disse le uniche parole che gli vennero in mente:
«Grazie, fratello. Contro i miei nemici... e i tuoi.» Ma doveva essere la risposta giusta, o qualcosa di molto simile, perché Rannirl girò la testa e, con una certa sorpresa di Jeff, lo baciò sulla guancia.
«Andiamo», disse poi Rannirl. «Farò in modo che il nostro onore sia rispettato, Kennard. E se tu ne dubiti, Auster, vieni con noi.»
Kerwin sfilò il coltello dalla guaina e lo soppesò nella mano. Non aveva dubbi sulla sua capacità di servirsene bene; sugli altri mondi era sempre riuscito a mettere a posto gli avversari. Dentro di lui, aveva scoperto da tempo, era nascosto un uomo d'azione, e la cosa, in quel momento, gli faceva piacere. Il codice imparato nella sua infanzia, il codice dell'onore e del duello, pareva scendere fino alle radici della sua persona.
Per Ragan c'era in serbo una brutta sorpresa.
Prima la sorpresa, e poi la morte.
CAPITOLO 13
ESILIO DA ARILINN
Uscirono dalla Torre, passando attraverso il Velo, e trovarono ad accoglierli il sole dell'alba: il Sole di Sangue che s'innalzava in quel momento al di sopra dei monti dell'Est. Jeff, camminando in fretta lungo le strade della città, con in mano il coltello, si sentiva strano, gelido. A quell'ora le strade di Arilinn erano vuote; solo qualche passante fissò con sorpresa i tre Comyn dai capelli rossi, che camminavano l'uno di fianco all'altro, armati e pronti alla lotta; e coloro che li videro si ricordarono improvvisamente di avere qualche urgente impegno in un'altra parte della città.
I tre Sapienti della Torre attraversarono la periferia, giunsero al mercato dove un Jeff molto più spensierato era andato a procurarsi, molto tempo prima, un paio di stivali, e poi in una zona residenziale affollata e fatiscente. Auster, che aveva portato con sé la matrice-trappola, disse a bassa voce: «Non credo di riuscire a tenerlo ancora per molto».
Kerwin fece una smorfia, minacciosamente. «Basta che tu lo tenga finché non l'avrò trovato, e poi potrai lasciarlo andare quando vorrai.»
Si avviarono lungo uno stretto vicolo, poi entrarono in un cortile pieno di rifiuti e in una stalla con un paio di cavalli macilenti. Uno stalliere dall'aria idiota, vestito di stracci, li guardò a bocca aperta, poi si voltò e fuggì. Auster indicò una scala di legno che portava al ballatoio del piano superiore, dove si scorgevano due porte. Quando Kerwin montò sugli scalini, da una delle porte uscì una ragazza che indossava uno scialle e una gonna rattoppata; nel vederli, la giovane si immobilizzò per lo stupore. Rannirl le fece un gesto imperioso, ordinandole di allontanarsi, e lei corse di nuovo nella propria stanza e mise la sbarra.
Auster si fermò davanti all'altra porta e, tratta dalle vesti la matrice-trappola, fece qualcosa su di essa, che Jeff non riuscì a vedere bene. Dall'interno della stanza giunse un grido di rabbia e di disperazione, proprio mentre Kerwin, con un balzo, si gettò contro la porta e la sfondò, per poi lanciarsi dentro a precipizio.
Ragan era ancora nella posizione in cui la matrice l'aveva bloccato; poi, all'improvviso, si liberò e si girò verso di loro; chinandosi leggermente, estrasse dallo stivale qualcosa di lucido. Fece un passo indietro, e li affrontò, con in mano il pugnale, e ringhiò: «Tre contro uno, vai dom'yn?»
«No, soltanto uno!» disse Kerwin, a denti stretti, e con il braccio libero fece segno a Rannirl e ad Auster di tirarsi indietro. Poi, un attimo più tardi, indietreggiò a sua volta sotto l'urto di Ragan che si era gettato contro di lui. Sentì la punta del pugnale di Ragan contro il braccio, mentre sollevava di scatto la propria arma, ma il mezzo-sangue si era limitato a strappargli la manica. Ribatté con un colpo che fece perdere momentaneamente l'equilibrio a Ragan; poi si affrontarono in un corpo a corpo mortale, e Jeff faticò a tenere lontano dalle sue costole il coltello di Ragan. Sentì il suo coltello entrare nel cuoio della giubba di Ragan; quando lo tirò indietro, era sporco di rosso. Ragan grugnì, si contorse, fece una finta...
Auster, che li osservava come il gatto davanti alla tana del topo, si gettò all'improvviso contro di loro. Jeff perse l'equilibrio, e, ancora incredulo che fosse davvero successa una cosa simile — lo sapevo, non c'era da fidarsi di Auster! pensò — sentì la punta del coltello scorrergli lungo la parte interna del braccio per poi graffiarlo sul fianco, qualche dito sotto l'ascella. Per un istante non sentì più niente, poi avvertì un foltissimo bruciore; lasciò cadere il coltello dalla mano sinistra e lo raccolse con la destra, e afferrò il braccio con cui Auster cercava di stringerlo e lo costrinse ad abbassarlo. Imprecando violentemente, cercò di allontanarlo, a calci.
«Va' via, maledetto te... è questa la tua idea di un regolare duello?» Mentre così diceva, sopraggiunse Rannirl, che afferrò Auster da dietro e lo trascinò via. Mentre tirava indietro Auster, fu colpito al polso e sul dorso della mano da un fendente di Ragan, e si mise a sua volta a imprecare.
«Sei impazzito?» chiese, ansimante.
Ragan, però, approfittò della confusione per liberarsi. Si lanciò all'esterno, e ai tre Comyn giunse solo un rumore di passi pesanti, lo schianto di qualche oggetto di terracotta che si rompeva e il rumore di qualcosa che rotolava lungo la scala. Auster e Rannirl, che ancora lo stringeva, finirono a terra; chissà come, Auster aveva in mano il coltello di Ragan. Rannirl disse: «Jeff, togligli il coltello!»
Kerwin gettò a terra la sua arma e raggiunse i due compagni; afferrò Auster per il polso e gli bloccò la mano. Auster lottò brevemente, poi aprì la mano e lasciò cadere l'arma, mentre dal suo sguardo usciva pian piano la luce di follia. Aveva un graffio sulla guancia — Kerwin non avrebbe saputo dire chi fosse stato a ferirlo — e gli usciva sangue dal naso, l'occhio gli stava diventando nero, dove Jeff gli aveva dato una gomitata.
Rannirl si alzò in piedi e guardò il sangue che gli usciva dal dorso della mano. Il coltello non era penetrato: era un semplice graffio. Poi spostò lo sguardo su Auster e lo fissò con sorpresa e orrore. Auster fece per muoversi, ma Kerwin gli rivolse un gesto minaccioso. Aveva una grande voglia di prenderlo a calci. «Resta dove sei, accidenti a te.»
Auster si pulì il sangue dalle labbra e dal naso, e non si mosse. Kerwin si avvicinò alla porta e guardò il cortile pieno di rifiuti. Di Ragan, naturalmente, non c'era traccia. E pareva poco probabile che riuscissero a rintracciarlo, anche in futuro.
Tornò da Auster e gli disse: «Trovami qualche buona ragione per non prenderti a calci».
Auster rizzò la schiena, insanguinato ma non vinto. «Va' avanti, terrestre»,disse. «Fa' finta di avere diritto alla protezione del nostro codice d'onore!»
Ma tra loro si intromise Rannirl, con aria minacciosa. «Oseresti chiamare traditore anche me?» chiese. «Kennard ha accettato la sfida, mentre tu, in quel momento, non hai detto niente. E io ho dato a quest'uomo il mio pugnale; è mio fratello. Secondo la nostra legge, Auster, in questo momento potrei ucciderti!»
Pareva anche pronto a farlo. Aggiunse: «Kennard gli ha dato il diritto...»
«Di uccidere il suo complice», ribatté Auster, «in modo che non potessimo mai sapere la verità! Non hai visto che stava per uccidere quell'uomo prima che noi riuscissimo a interrogarlo? Non ti sei accorto che lo aveva riconosciuto fin dal primo momento? Oh, sì, ha allestito una bella messinscena», continuò, ironicamente. «Una cosa molto astuta: ucciderlo prima che potessimo sapere la verità. Io volevo prenderlo vivo, e se tu avessi avuto almeno l'intelligenza di un coniglio, adesso lo avremmo in mano nostra e potremmo esaminarlo telepaticamente!»
Menzogne, menzogne! pensò Kerwin, disperatamente, ma vide che Rannirl cominciava a dubitare di lui e che aveva aggrottato le sopracciglia. Come sempre, Auster era riuscito a confondere le carte in tavola e a costringerlo a difendersi.
«Andiamo via», disse, con voce stanca. «A questo punto, tanto vale tornare alla Torre.» Era stanco e svogliato per i postumi della tensione che così bruscamente si era spenta; inoltre il braccio cominciava a fargli male, dove Ragan l'aveva ferito. «Aiutami a strappare un pezzo di camicia per fermare il sangue, per favore, Rannirl. Sanguino peggio di un mattatoio in estate!»
Quando uscirono, per la strada c'era più gente, e più occhi che si posavano sui tre Comyn, uno con l'occhio nero e il naso che sanguinava, e un altro con il braccio infilato in una fascia improvvisata, fatta con un pezzo di camicia. Kerwin sentiva su di sé tutta la stanchezza di una notte passata a lavorare con le matrici; ogni passo gli costava fatica. Anche Auster barcollava per la stanchezza. Passarono davanti a una tavola calda dove si erano riuniti alcuni manovali, a bere e a mangiare, e l'odore del cibo ricordò a Kerwin che dopo avere passato una notte alle matrici non avevano mangiato nulla, e che rischiavano di cadere a terra per l'esaurimento. Scambiò un'occhiata con Rannirl, e tutt'e tre, senza bisogno di parole, entrarono nel negozio. Il proprietario sembrava intimorito, e promise di dare loro il meglio che c'era nel locale, ma Rannirl scosse la testa e si limitò a prendere due grosse pagnotte appena uscite dal forno e un piatto di salsicce, gettò qualche moneta sul tavolo e fece segno ai compagni di uscire; all'esterno, spezzò il pane e ne diede una porzione a Kerwin e una — aggrottando la fronte — ad Auster; poi ripresero il loro cammino lungo le strade di Arilinn, mangiando con fame da lupi quel cibo non certo raffinato. Dopo avere terminato la sua porzione, Kerwin si sentì come se avesse consumato solo un piccolo "stuzzichino" tra un pasto e l'altro, come un bambino che si fosse fatto dare un boccone d'assaggio da un amico che mangiava un panino, ma si sentì un po' meglio. Quando arrivarono alla Torre e attraversarono il Velo, lo sforzo di sottoporsi all'esame gli consumò le ultime forze.
«Jeff», gli disse Rannirl, «verrò a rifarti la fasciatura.»
Kerwin scosse la testa. Anche Rannirl sembrava esausto, e, dopotutto, aveva partecipato alla spedizione solo per fare un favore a lui. «Va' a riposare...» disse, e aggiunse goffamente: «...fratello. Ce la farò da solo».
Rannirl avrebbe voluto opporsi, ma dopo qualche istante si rassegnò e si diresse verso la sua stanza; anche Kerwin, lieto di essere solo, si recò nella propria e chiuse la porta. Si recò in bagno e si tolse la benda e le fasciature, e provò ad alzare il braccio. Gli faceva male. Rannirl gli aveva fatto una medicazione di fortuna servendosi di un pezzo di tela strappato dalla camicia; ora Kerwin lo tolse con attenzione ed esaminò la ferita. Il coltello di Ragan gli aveva tagliato un pezzo di pelle, che adesso pendeva come uno straccio, ma la ferita, a quanto vide, era superficiale. Per chiarirsi le idee, infilò la testa nell'acqua del lavandino; quando la sollevò, gocciolava ma riusciva di nuovo a riflettere.
Il peloso non umano che gli faceva da cameriere entrò nella stanza, senza fare rumore, e lo guardò con stupore, sgranando per la costernazione gli occhi senza pupille; poi si allontanò in fretta e fece ritorno con bende e con un unguento giallastro che sparse sulla ferita; poi, con le sue strane mani provviste di due pollici, fasciò Kerwin. Fatto questo, lo guardò con aria interrogativa.
«Portami qualcosa da mangiare», gli disse Jeff. «Mi sento svenire per la fame.» Il pane e le salsicce erano riuscite a malapena a dargli un po' di respiro, ma la sua fame era come un pozzo ancora tutto da colmare.
Aveva mangiato come tre domatori di cavalli dopo una lunga sessione del loro mestiere, quando la porta si spalancò e Auster fece il suo ingresso nella stanza, senza annunciarsi. Si era fatto il bagno e si era cambiato, ma, notò con piacere Kerwin, aveva un bellissimo occhio nero che avrebbe impiegato un bel po' di tempo, prima di scomparire. Kerwin si pulì le labbra, posò la forchetta sul piatto e indicò il coltello di Ragan, posato sul tavolo.
«Se hai qualche nuova idea luminosa, lì c'è il coltello», disse. «Altrimenti vattene fuori dai piedi!»
Auster impallidì. Si passò la mano sull'occhio, come se gli facesse male — Kerwin si augurò che gliene facesse, e molto — e disse: «Non so darti torto per il tuo odio, Jeff, ma devo dirti una cosa».
Kerwin fece per stringersi nelle spalle, si accorse che il movimento gli faceva male, e rinunciò. Auster lo guardò e rabbrividì come se il ferito fosse lui. «È una brutta ferita?» chiese. «Hai fatto controllare dal kyrri che non ci fosse veleno sulla lama?»
«Magari ti piacerebbe», rispose Kerwin, «ma quello è un trucco darkovano. I terrestri non combattono così. E, poi, perché ti preoccupi, visto che hai fatto del tuo meglio per assicurarti che mi buscassi un colpo di coltello in quella lotta?»
Auster disse: «Forse merito il tuo biasimo. Credi pure quello che vuoi. A me interessa solo una cosa... anzi, due cose, e tu le stai distruggendo entrambe. Forse non lo capisci, ma, maledizione, allora è peggio che se tu lo capissi!»
«Vieni al dunque, Auster, oppure vattene.»